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Civiltà ebraica. L'esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa - Shmuel N. Eisenstadt - copertina
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Civiltà ebraica. L'esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa
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Civiltà ebraica. L'esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa - Shmuel N. Eisenstadt - copertina

Descrizione


L'enigma più grande della civiltà ebraica risiede, paradossalmente, nella sua stessa sopravvivenza a dispetto di esilio, discriminazione e sterminio. Un enigma che il libro di Eisenstadt illumina con forza, in una prospettiva scientifica che diviene anche alta lezione umana e politica: lì dove esorta a pensare l'esperienza storica ebraica come storia di una civiltà, e non solo di un popolo, o di un gruppo religioso, etnico o nazionale. Ricorrendo con leggerezza e maestria allo strumento disciplinare più raffinato della sociologia storica, l'analisi comparativa, Eisenstadt ricostruisce anzitutto le caratteristiche fondamentali della civiltà ebraica nei suoi periodi formativi del Primo e Secondo Tempio e del lungo esilio medievale, per soffermarsi poi diffusamente sul periodo moderno, quando i rapporti tra gli Ebrei e le società «ospiti» mutano radicalmente. Il libro svela così i differenti percorsi di «incorporazione» degli Ebrei non solo nelle società europee, ma anche in quella americana: una «società ideologica di coloni» per tanti versi simile a quella di Israele, a cui sono dedicate pagine illuminanti. Eisenstadt analizza infine sia i movimenti nazionali ebraici, e in particolare quello sionista, sia le caratteristiche strutturali dell'odierna società israeliana e della sua cultura politica, dando ragione della cruciale eterogeneità della vita ebraica moderna, sostenuta dalla «esistenza simultanea di tutti questi modelli diversi di esperienza storica». Sta in ciò, come scrive David Meghnagi nella prefazione, una delle ragioni principali «del fascino dell'Ebraismo e dell'inquietudine che suscita per il suo essere allo stesso tempo dentro e fuori, lontano e prossimo, così da rappresentare nell'immaginario collettivo occidentale e cristiano un fantasma delle origini».

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Dettagli

1993
7 agosto 1993
XVI-346 p., ill. , Rilegato
9788879890304

Voce della critica


recensione di Burgio, A., L'Indice 1994, n. 4

C'è un "enigma" nella vicenda del popolo ebraico, un enigma che può avere un'unica soluzione. Distruzione ed esilio; perdita dell'indipendenza politica e mancanza di continuità territoriale; mutamenti profondi nelle forme della vita, revisioni radicali degli orientamenti religiosi, continue trasformazioni dell'identità collettiva. E tuttavia, a onta di una sequenza ininterrotta di veti, di ostacoli, di impossibilità, un'esperienza storica unitaria, tenuta insieme da un filo ininterrotto, da una forte, essenziale coerenza: come render conto di un simile miracolo? L'unica risposta possibile sta, secondo Shmuel Eisenstadt, nella qualità della vicenda ebraica, nell'essere stati gli ebrei (e nell'essere tuttora, ancorché qui si addensino interrogativi e ansie) portatori di una civiltà, non soltanto un gruppo etnico e religioso.
Che cosa intenda per "civiltà" Eisenstadt lo chiarisce già nelle prime pagine. Muove dal concetto di "età assiale" con cui Karl Jaspers riassunse lo sviluppo, lungo il primo millennio a.C., di grandi civiltà segnate dalla tensione tra ordine trascendente e mondano, e di qui ferma il dato costitutivo di ogni civiltà nell'esser fonte di sintesi originali tra modalità della vita (e dell'interazione sociale) e concezioni filosofiche del mondo trascendente e immanente. La sua tesi è dunque che sarebbe impossibile comprendere la vicenda dell'ebraismo come storia di una religione o di una nazione o di un popolo e che è al contrario indispensabile riconoscere nel popolo ebraico il portatore di una particolare 'Weltanschanung' e della sua combinazione con le forme concrete della vita individuale e collettiva.
La scelta dei bersagli polemici è trasparente. Max Weber, "Religionssoziologie", 1920; Arnold Toynbee, "A Study of History", 1947: interpretazioni canoniche che negli ebrei riconoscono gli artefici di una civiltà, ma di questa negano l'unitarietà stabilendo una netta censura tra la prima esperienza biblica e quella dell'esilio e ne riducono il valore, bollando gli ebrei come "popolo paria", dalla segregazione ridotto a gruppo meramente religioso (Weber), ripiegato in uno sterile feticismo delle regole (Toynbee). Una ricostruzione minuziosa del periodo dal Primo Tempio alla guerra del Golfo serve ad Eisenstadt per confutare giudizi influenti sulla coscienza generale e argomentare una tesi ambiziosa nella quale precipitano temi cruciali della storiografia classica e contemporanea.
Una vita "fuori dalla storia", chiusa nel particolarismo delle comunità, sovente limitata alla dimensione intellettuale; una vita spesa nel segno della segregazione costretta al disinteresse per le istituzioni della politica, dove la stessa rivendicazione di un accesso diretto al sacro tende ad essere trasposta nel futuro messianico: sono questi i caratteri di fondo dell'ebraismo medievale che l'età moderna radicalizza, portando con sé profondi mutamenti nella struttura interna delle comunità e il progressivo allontanamento degli ebrei dalle strutture comuni. L'espulsione dalla penisola iberica alla fine del Quattrocento segna l'estremo differenziarsi dell'esperienza ebraica europea e il fiorire dell'eterodossia. La struttura ''multicentrica'' della diaspora acuisce il dinamismo dell'identità collettiva, mentre sulle comunità si dispiegano gli effetti dissolutori dell'emancipazione, invano contrastati dalle restaurazioni neo-ortodosse. Lungo il passare del tempo il racconto conosce un crescendo drammatico, dove fonte di una "diaspora interna" alla coscienza ebraica si rivela la stessa nascita dello stato di Israele, "piccola società assediata" alla quale Eisenstadt dedica un lungo 'excursus', quasi un libro nel libro.
Ma proprio in questo suo paradossale climax sta con tutta evidenza la chiave dell'"enigma". Nonostante o grazie alla diaspora tiene l'unità della coscienza ebraica nella storia, il suo coerente strutturarsi nella tensione tra universalismo dell'orientamento religioso e particolarismo della comunità primordiale, tra visione escatologica e forte sentimento del presente? "Problema centrale della coscienza collettiva" degli ebrei, la diaspora governa la "prospettiva comparativa" della ricostruzione: il che significa centralità del rapporto con le altre culture, e funzione costitutiva della dialettica e persino del conflitto con le altre civiltà, la cristiana in primis. La diaspora e la segregazione come presi supposti dell'autoriconoscimento collettivo: è questo il "paradosso" drammatico sul quale Eisenstadt costruisce l'intero suo teorema. Se l'emancipazione e l'integrazione posero fine a una vicenda di violenze e umiliazioni, non generarono forse "l'indebolimento dei confini fino ad allora istituzionali e simbolici delle comunità e del popolo ebraico"? Sta qui la preoccupazione dell'oggi e della prospettiva. Il dramma dell'essere ebrei in una società postcristiana evidenzia la funzione fondamentale dell'incontro e del conflitto tra le diverse identità, con ciò offrendo la testimonianza più intensa di quale povera follia ispiri l'idea stessa di "purezza" etnica. Il problema di Eisenstadt è il processo che Arthur Hertzberg definisce "erosione dell'ebraismo". Non è un caso: Hertzberg ragiona sugli ebrei americani, e gli Stati Uniti - come l'Inghilterra, l'Olanda, i paesi scandinavi - sono il luogo della massima tolleranza verso gli ebrei, quindi del massimo rischio di perdita dell'identità. "In questa nuova America è possibile dimenticare di essere ebrei senza decidere di essere qualcos'altro", scrive il rabbino di New York: se fino a oggi l'orrore per la propria scomparsa è stato baluardo sufficiente, si fa ogni giorno più intensa la domanda sul "destino della civiltà ebraica nell'era moderna".

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