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Onore e patria
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Descrizione


«Onore e patria» è il titolo dei due corsi tenuti da Lucien Febvre al Collège de France tra il 1945 e il 1947, e ripresi un decennio più tardi, in vista della pubblicazione di un volume che l'autore non ebbe il tempo di portare a compimento. Il titolo, che riprende il motto della Marina militare francese, richiama la vicenda di due fratelli che, nel 1942, avevano fatto discendere da quelle parole d'ordine l'adesione a schieramenti contrapposti, con esiti tragici per entrambi. Ed è proprio il possibile conflitto tra le due nozioni, per altri versi accoppiate in un lunga tradizione comune, a suscitare in Febvre una riflessione di potente portata storica, su «questo grande tema, uno dei più strazianti, forse, che un francese possa proporsi di prendere in esame, all'indomani di questi quattro anni di notte e di lampi, con l'aiuto della ragione, ma anche di un cuore fraterno; uno dei più rilevanti che un francese, che sia anche uno storico, possa proporsi di illuminare attraverso la storia».Attraverso una congiunzione finissima di erudizione, intuito e passione civile, il grande storico cerca di trovare nella Chanson de Roland o in Rabelais, in Montaigne o in Corneille, in Bossuet o in Stendhal, e naturalmente entro i suoi stessi più profondi convincimenti, gli imperativi che dal sentimento dell'onore e dall'attaccamento alla patria derivano, e le modalità con cui simili parole mobilitano, di tanto in tanto, in modo così deciso e perentorio, le coscienze. Testimonianza preziosa, particolarmente viva e commovente, dei meccanismi del lavoro storico, questo testo incompiuto e rimasto per lunghi anni inedito, ritrovato per caso in una soffitta del castello che fu di Tocqueville, restituisce il senso di una riflessione attualissima. Mai come oggi, di là da ogni facile costrizione entro i territori della retorica, onore e patria mostrano intatta la loro capacità di orientare, in certi momenti, le scelte decisive della nostra vita collettiva.

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Dettagli

1997
22 settembre 1997
190 p., Rilegato
9788879893350

Voce della critica


recensione di Carpinelli, G., L'Indice 1997, n.11

Su "onore e patria" Lucien Febvre aveva tenuto due corsi al Collège de France e aveva anche progettato di scrivere un libro. Dopo la sua morte, le note delle lezioni erano andate perdute. Fortunosamente ritrovate e corredate di indicazioni bibliografiche e ulteriori informazioni, esse occupano gran parte del volume ora pubblicato. Non abbiamo perciò a che fare con un'opera predisposta dall'autore per la pubblicazione. Ci vediamo sottoporre piuttosto le carte dello storico, i suoi appunti.
In apparenza il testo ha il carattere della ricerca erudita. Nella disposizione dei capitoli, nella scelta degli argomenti prevale l'impianto filologico, l'attenzione per le parole e per l'uso delle parole nei testi canonici della tradizione letteraria. Di "onore" si considera prima, e lungamente, la definizione ultima, la gamma delle accezioni che il termine ha incorporato. Poi si studia il significato storico della parola, a partire dalla "Chanson de Roland", con i cambiamenti che via via sono sopraggiunti; a ciascun capitolo corrisponde un autore o un blocco di autori, si va da Froissart a Rabelais e Montaigne, a Corneille, a Bossuet, fino a Montesquieu, che segna un punto di svolta: nell'"Esprit des lois" l'onore è associato alla monarchia e l'amor di patria (o virtù) alla repubblica. Ma Febvre non si interessa solo da erudito al significato di una parola, cerca altro, sa vedere nella parola l'espressione e il riflesso di una sensibilità. Onore e patria si prestano a una operazione simile: sono per Febvre le due fonti del sentimento nazionale in Francia.
Un altro e non meno importante aspetto degli scritti raccolti nel volume va considerato: la motivazione dell'autore. Sia le lezioni al Collège de France sia il progetto di un libro da scrivere nascono in Febvre dal desiderio di riflettere su quanto è avvenuto in Francia durante la guerra, sulla divisione del paese in schieramenti contrapposti anche da un punto di vista militare. Il momento decisivo è costituito per lui da un episodio che risale al novembre 1942; siamo nei giorni dello sbarco americano nell'Africa del Nord. Proprio in quelle circostanze, su una nave davanti a Orano, muore un giovane ufficiale di marina: è il figlio di Henriette Psichari, che è la segretaria generale dell'"Encyclopédie française". Febvre conosce bene la donna, che in un triste mattino gli appare con il volto della "madre affranta, impietrita dal dolore" e gli svela il suo dramma: il figlio appena morto aveva seguito l'ammiraglio Darlan nella fedeltà al regime di Vichy; un altro, che era ufficiale dell'esercito, si era per tempo schierato dalla parte opposta, con la Francia libera, con De Gaulle, e faceva ancora parte delle truppe comandate dal generale Leclerc. Vista con gli occhi della madre, la situazione era appunto questa: "Uno dei suoi figli era morto per difendere ciò che suo fratello si adoperava a distruggere, anch'egli al prezzo del suo sangue, se necessario".
Per Lucien Febvre la tragedia assume la natura di un enigma da sciogliere. Le lezioni al Collège de France si presentano come una risposta agli interrogativi più semplici che l'episodio suscita: come? perché? Il dramma non si cancella con questo, ma le ragioni si chiariscono. È nell'età napoleonica che onore e patria iniziano a formare un binomio consacrato da un uso frequente e significativo. Le due parole diventano il motto della Legion d'onore; e si ritrovano allora per la prima volta scritte a lettere d'oro sulle bandiere dell'esercito e della marina francesi. In tempi di quiete, esse appaiono come fuse in un solo blocco, non sono nettamente separabili. In tempi di crisi e di inquietudine, invece, il binomio tende a spezzarsi, ciascun termine acquista una sua fisionomia, trova un dinamismo suo proprio. Già al tempo della Rivoluzione l'onore era diventato appannaggio degli aristocratici, mentre i fautori del nuovo regime si chiamavano e si consideravano patrioti. La fedeltà ai capi appartiene alla logica dell'onore; l'amor di patria deriva al contrario dall'attaccamento al destino, al passato e al futuro, di una comunità territoriale.
Nel caso della Francia al tempo della seconda guerra mondiale, secondo Febvre, ciascuno dei due campi ha mantenuto formalmente il richiamo a parole che erano in gran parte - e a volte esattamente - le stesse: "Onore e Patria: queste parole l'ufficiale di Leclerc le aveva lette centinaia di volte sulle pieghe della sua bandiera, l'ufficiale della marina le aveva lette tutti i giorni sulla passerella della sua nave". Lo storico dà prova di indulgenza nei confronti delle truppe, alle quali accorda senza esitare la buona fede. Si impietosisce per la sorte dei giovani che rimasero al loro posto nella marina e si trovarono per questo solo ad aver compiuto una scelta prossima al tradimento: questi giovani, che egli chiama "nostri figli e fratelli di sangue", erano alla fine "prigionieri di se stessi in porti di guerra che per i loro capi erano invece porti di diplomazia": ed è chiara qui l'allusione al doppio gioco di Darlan. Per il significato oggettivo della loro presenza e della loro azione, solo "i volontari della Francia combattente" potevano salvare davvero la patria: ma gli uomini dell'altro schieramento sono visti da Febvre come "i sacrificati di una Francia che essi credevano, o volevano credere, in attesa"; il discorso naturalmente riguarda le truppe regolari: il caso della milizia, lo stesso collaborazionismo che portò molti a parteggiare per i tedeschi sono passati sotto silenzio.
Il quadro tracciato dallo storico include ugualmente altri profili tipici di quegli anni. È riconducibile alla logica dell'onore l'atteggiamento di quei francesi che "sembravano accogliere supinamente incredibili prediche di decadenza"; il regime di Vichy è stato sostenuto da persone del genere. Sprezzante e duro è infine il giudizio riservato ai comandanti supremi che non seppero o non vollero continuare la guerra contro la Germania; queste figure sono ricordate perfino con fastidio. "Lasciamo da parte il triste enigma dei capi. Lasciamo da parte i vecchi cinici. Lasciamoli dibattersi contro se stessi, contro i loro calcoli sventati, contro le loro colpevoli debolezze, la loro inintelligente partigianeria, la loro usura fisica e morale". Sarebbe questo, sia detto per inciso, il modo migliore per riflettere in Italia sulla patria che sarebbe morta in occasione dell'8 settembre; chi piange sulla morte della patria da noi è affascinato dall'esempio di De Gaulle, ma non osa trattare Mussolini e Badoglio o il re con la saggezza profonda racchiusa in un atteggiamento come questo: "Lasciamo da parte il triste enigma dei capi". La patria francese e quella italiana per altre vie non sono state salvate durante la guerra dal culto della disciplina, ma dallo splendore della virtù, repubblicana o comunista che fosse.

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Conosci l'autore

Lucien Febvre

(Nancy 1878 - Saint-Amour, Giura, 1956) storico francese. Con M. Bloch, del quale condivideva la convinzione della necessità di superare le barriere tra la storiografia e le altre discipline, fondò nel 1929 le «Annales d’histoire économique et sociale» (oggi «Annales. Économies, sociétés, civilisations»). Ricostruì con geniale penetrazione la vita religiosa e la sensibilità cinquecentesca in opere quali: Un destino: Martin Lutero (Un destin: Martin Luther, 1928); Il problema dell’incredulità nel XVI secolo: la religione di Rabelais (Le problème de l’incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, 1942); Intorno all’Heptaméron. Amor sacro, amor profano (Autour de l’Heptaméron. Amour sacré, amour profane, 1944).

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