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Lettera di una professoressa. Trent'anni dopo Barbiana - Francesca Giusti - copertina
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Lettera di una professoressa. Trent'anni dopo Barbiana - Francesca Giusti - copertina
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Descrizione


Quanto è lontana e inattuale, oggi, la Lettera a una professoressa? Merita ancora una risposta, il ragazzo a cui don Lorenzo Milani affidò trent'anni fa la sua caustica denuncia dei mali della scuola italiana? In realtà, in questa scrittura autobiografica di una professoressa «inguaribile», il confronto con i sensi di colpa e le speranze che quel libro evocava costituiscono un filo che si dipana, fino a contenere l'esperienza vissuta di trent'anni di scuola. L'interlocutore continuamente si sdoppia: al ragazzo di Barbiana si sovrappongono con forza le immagini di alunni reali, che si sono avvicendati nel corso degli anni, mentre si chiama in causa con rabbia chi ha contribuito a mettere la scuola in ginocchio. Lo scenario è mutevole e descrive un mondo attraversato da una crisi radicale, ma in cui la vita non si rassegna a morire. E la lettera non è una risposta, non ha certezze da brandire: si traduce piuttosto in un racconto di motivazioni profonde, di affetti forti ed essenziali, i soli argini alla distruzione incombente, che minaccia sempre più da vicino la scuola.Così, Barbiana è lontana e vicina a un tempo. Non è solo un luogo di radici e di inizio. Certamente ci rimanda l'immagine di un mondo diverso, in cui l'ingiustizia sembrava semplice e univoca, e che però già conteneva il presentimento di molti dei mali presenti. Quella tensione morale, intanto, non è più una ricetta: ma costituisce ancora una forza.

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Dettagli

1998
11 novembre 1998
96 p.
9788879893930

Voce della critica


recensione di Bini, G., L'Indice 1998, n. 6

Agli alunni di don Milani non accadde certamente di ricevere molta posta da insegnanti dopo la pubblicazione della "Lettera"; se n'avessero ricevuta, dato il loro caratteraccio avrebbero probabilmente risposto con scortesia, come fecero con Pier Paolo Pasolini qualche mese dopo alla Casa della cultura di Milano. Lo maltrattarono come se fosse stato un loro nemico, sebbene avesse espresso simpatia e partecipazione. Ne ricevettero, mentre si svolgeva l'esperimento educativo di don Milani, da amici sinceri; fra questi il maestro Mario Lodi, col quale confrontarono proficuamente il loro metodo di scrittura, e l'amico di vecchia data Giorgio Pecorini, allora giornalista dell'"Espresso".
Tuttavia almeno due professoresse hanno scritto a quelli di Barbiana: trent'anni fa, Maria Ricciardi Ruocco ("Risponde una professoressa ai ragazzi di Barbiana", Lacaita, 1968) scrisse seguendo lo schema del loro libro ma affrontando anche altri temi, come l'"esplosione sessuale ed amorosa" e la libertà sessuale, e anche la "selezione dei migliori" attraverso l'uguaglianza delle opportunità e la "stimolazione dei talenti"; e oggi scrive Francesca Giusti.
Questa seconda lettera è altrettanto rispettosa di quella di trent'anni fa non solo verso gli autori, ormai più che quarantenni, sparsi per la Toscana e altrove, ma per il posto che la lettera loro e del loro maestro occupa nella nostra cultura, e inoltre riflette un senso molto più marcato della difficoltà con cui un'insegnante professionalmente e civilmente consapevole svolge il suo lavoro. In ogni pagina si ritrova questo atteggiamento di serietà e dignità che viene, di là dagli spunti autocritici, dall'onesto riconoscimento che niente è mai semplice di ciò che accade quando una persona adulta lavora insieme a ragazzi e ragazze. Chi ha presente la bruttissima discussione che seguì l'anno scorso alla proiezione del film televisivo su don Milani ricorderà una professoressa - nota a chi si è occupato negli anni e nei decenni scorsi di questioni scolastiche e in particolare del latino - messa lì a difendere l'istituzione scuola da qualunque critica che non venisse da destra e animata da invincibili certezze. Francesca Giusti non le somiglia in nulla.
La sua "Lettera" è costruita sulla giustapposizione di due piani, che tocca al lettore ricondurre a una lettura unitaria: il piano della risposta agli alunni di don Milani e quello del colloquio coi propri alunni e le proprie alunne degli ultimi anni. Il codice per ristabilire l'unità della lettura si ritrova in questa serietà, nell'impegno con cui l'autrice scrive di sé e della scuola, sia quando si rivolge ai vecchi autori della "Lettera a una professoressa" sia quando continua a minor distanza di spazio e di tempo un dialogo con alunni e alunne delle tante classi in cui ha insegnato.
Dice, sì, prima di tutto che insegnare è lavoro difficile e complicato, nel quale trova il faticoso appoggio del suo "super-io onnipresente", e dice che l'educazione è messa in scacco dall'impossibilità per chi insegna di promuovere tutti e dall'inutilità dell'esser promosso per chi alla scuola ha chiesto istruzione e soprattutto lavoro, e finirà per iscriversi "a un'inutile università". E del pericolo, se si boccia, di trovarsi intruppati fra i "liberal chic", per i quali bocciare è tanto alla moda.
A bocciare si è tuttavia costretti, ammette, "ma in una scuola che crolla, che, letteralmente, è stata lasciata morire". Lo scrive senza concedere nulla a una troppo facile adesione di principio, anzi rivolgendo altre critiche: al lassismo con cui si è risposto alle critiche che colpivano, negli anni sessanta e settanta, la scuola classista, all'"anarchia selvaggia", alla gara "a distruggere ciò che restava di regole e norme che si sarebbero dovute cambiare, ma non semplicemente annientare". Così si è potuto - "insulto estremo" - accusare "un'idea di eguaglianza di aver rovinato la scuola".
La lettera prosegue rimproverando ragazzi e insegnanti, autorità e ministri con non minor severità di quella che l'autrice usa verso se stessa. Ma si coglie nelle pagine l'affacciarsi della convinzione d'essersi davvero impegnata e d'aver tratto non poche gioie dalla sua lunga esperienza. Anche se vuol concludere con amarezza, mitigata appena da un segno di speranza: la "Lettera" "esprime una fede che non riesco a provare. Alla speranza di tempi migliori si univa una fede più salda, quella data da valori assoluti. Penso che ci si possa a fatica soltanto barcamenare tra inesistenti certezze in un futuro con molte e pesanti nubi addensate. Qualcosa va fatto comunque, un seme va pure gettato e la scuola poi, in fondo, non è proprio un luogo qualunque".

Il libretto di Francesca Giusti merita a pieno titolo d'entrare nell'ampia bibliografia su don Milani e la sua scuola, come un lavoro nel quale un'insegnante ascolta una voce che viene da lontano nel tempo e ne conferma l'attualità a distanza di trent'anni in una situazione in parte mutata. Il libro di Barbiana a sua volta merita ancora di essere letto con questa attenzione, sia che se ne voglia cogliere specialmente il carattere di manifesto politico che anticipava il Sessantotto e che fu assunto dall'iniziale movimento studentesco come uno dei suoi testi, sia che si guardi soprattutto alla proposta che contiene di un cambiamento della scuola tale da renderla adeguata ai principi su cui si fonda la Costituzione; che si legga, insomma, mettendo l'accento sull'appello rivoluzionario o sul progetto di riforma.
Chi ha parteggiato (criticamente) sin dall'inizio con la scuola di Barbiana, se non ha ascoltato altri richiami, prima di tutto il richiamo alla disuguaglianza sociale come valore, trae motivi di riflessione dallo scritto di Francesca Giusti e dal suo altrettanto se non più critico prender parte.
La "Lettera" ha sempre provocato prese di posizione spregiudicate, talvolta sconcertanti. Carlo Oliva, collaboratore dei "Quaderni piacentini", sotto lo pseudonimo di Orbilius (che ricordava eloquentemente il "plagosus" maestro del poeta Orazio), pubblicò nel 1978 presso Savelli una "Lettera a una studentessa" dove, usando di proposito un linguaggio irritante, invitava le studentesse e gli studenti ad ammettere la sconfitta: avevano vinto "gli altri", dunque si rassegnassero ad avere "una scuola di merda" come la società ("Da don Milani a Orbilius" s'intitolava un libretto dello scrivente, pubblicato da De Donato nel 1979, che informava sul "riflusso"; il libro di Oliva gli pareva sicura testimonianza di quel fenomeno sociale). Nel 1992 Roberto Berardi ("Lettera a una professoressa. Un mito degli anni 60", Shakespeare and Company) riprese gli attacchi polemici, e Sebastiano Vassalli, recensendolo sulla "Repubblica" del 30 giugno, chiamò don Milani "mascalzone". Fra gli scritti più recenti, tralasciando i numerosi articoli, sono da segnalare "Don Milani! Chi era costui?" di Giorgio Pecorini, Baldini & Castoldi, 1996; Gruppo don Milani, Calenzano, "Don Lorenzo Milani", Lef 1997; Mario Lancisi, "La scuola di don Milani", Polistampa, 1997; "L'obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici" di don Milani, Stampa Alternativa, 1997; "Don Milani e padre Balducci", atti del convegno patrocinato dalla Provincia di Genova, 1998; Gregorio Monasta, "Don Milani amico e maestro", Colpo di Fulmine, 1997; "Un nuovo cielo e una nuova terra", Punto Rosso, 1998; Domenico Simeone, "Verso la scuola di Barbiana," Il Segno dei Gabrielli, 1996; David Maria Turoldo, "Il mio amico don Milani", Servitium, 1996.

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