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Ancor oggi, superata la boa del nuovo millennio, è davvero esiguo il numero di cineaste le cui opere trovano distribuzione, e quindi visibilità, in Europa come negli Stati Uniti, oltre che nei paesi d'origine (pensiamo ad esempio a Jane Campion). Questo accade nonostante nel circuito festivaliero la presenza delle loro opere si dia in modo sempre più evidente e vivace. L'americana Kathryn Bigelow, classe 1941, fa parte di questo piccolo manipolo di elette, grazie, forse, a un equivoco di fondo. I suoi sette lungometraggi - The Lovelss (1981), Il buio si avvicina ( Near Dark , 1987), Blue Steel (1990), Point Break (1991), Strange Days (1995), Il mistero dell'acqua ( The Weight of Water , 2000) e K-19: The Widowmaker (2002) -, realizzati dai primi anni ottanta a oggi, sono a tutti gli effetti degli action-movies che spaziano nel cinema di genere (dall'horror al poliziesco, dalla fantascienza al western ecc.). Sono dunque prodotti commerciali e spettacolari sulla carta, che possono venire incontro ai gusti di un pubblico allargato, intergenerazionale.
Il misunderstanding di cui si parlava, su cui hanno preso un abbaglio sia l'industria (per fortuna!) che parte della critica cinematografica, sta proprio nell'essersi limitati a cogliere alcune caratteristiche di superficie dell'opera di Bigelow, anziché mettere in luce la complessità del suo discorso basato su ribaltamenti di sguardo e punti di vista non ortodossi nella rappresentazione del femminile e del maschile. Più che un discorso sui generi cinematografici, Bigelow lavora essenzialmente sugli stereotipi di genere. Come ben sottolinea Emanuela Martini, in un passaggio citato dall'autrice del volume a proposito di Strange Days , "Bigelow, giustamente, dirige come un uomo, ma, da donna, sa sottolineare la progressiva confusione dei ruoli, e il dolore e l'indeterminatezza tremenda e l'oggettiva difficoltà che questa provoca. Uomini che hanno la fragilità amletica di Ralph Fiennes, donne che hanno la forza tragica di Angela Bassett".
Michela Carobelli, nel suo documentato studio, compie una raffinata rivisitazione delle ascendenze e correlazioni tra l'opera della regista americana, il cinema classico e quello a lei coevo, si sofferma sulla centralità del suo lavoro sui generi cinematografici e sulla presenza di alcuni temi e figure ricorrenti come la centralità del corpo, l'attrazione per la diversità, l'attenzione per il contesto sociale, lo scoppio della violenza tra gli individui. Vivace e acuto sotto tanti aspetti, il testo di Carobelli forse non approfondisce a sufficienza uno degli elementi peculiari della poetica di Bigelow, sottolineato poco sopra, che determina la vera diversità e complessità del suo approccio stilistico e contenutistico: l'utilizzo di uno sguardo prettamente femminile, di genere, nella messa in scena dei corpi e dell'interiorità maschile e femminile, pratica che le consente di travalicare e ribaltare gli stereotipi propri del cinema classico e di genere.
Sara Cortellazzo
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