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Almeno per me il libro di Franz si è rivelato uno specchio che probabilmente influenzerà, con minor obiettività, quello che dovrebbe essere un giudizio. Franz è quello che sono e contemporaneamente colui che avrei voluto essere e che non sono mai diventato. Colui, ancora, che spera che la vita possa operare un rapido rewind per mettere una pezza alle parole non dette, ai gesti mai fatti. Almeno per me, dicevo, la lettura di "era mio padre" rappresenta l'ideale strumento psicologico per prendere atto che si desidera vivere in un mondo retrò fatto di pallas e di fumose sale dove si consuma una jazz session. Scoprire quanto una persona ti manchi solo quando non c'è più e ricercare, nel piacere presunto effimero del piacere dell'attimo il desiderio di fuggire via da una realtà che appare sempre più (e paradossalmente) irreale. Il vero è nei ricordi, il giusto -invece - nella consapevolezza di un mondo muto in black and white. Grande Franz. Antonello Bellanca
In “Era mio padre” di Franz Krauspenhaar non c’è traccia della ribellione anarcoide che è invece evidente in un autore maturo e fuori dalle etichette sociali e politiche come Michel Houellebecq, giustamente definito dalla critica mondiale il nuovo Céline, né c’è la spericolatezza di linguaggio di Beppe Fenoglio o la bellezza adamantina di Pavese, c’è invece l’espressione di una superficialità tipica di un Federico Moccia. Attenzione però: Krauspenhaar non parla di lucchetti e di amori scolastici fra diciassettenni e quasi quarantenni in carriera, no, questo per fortuna ce lo risparmia; tuttavia l’autore dichiara “questo libro è un salvataggio estremo”, “io qui sperimento me stesso”, ed è proprio quello che fa Moccia, pur rifacendosi a ossessioni ninfali. Kraupenhaar non ci parla di ragazzine minorenni, ci parla dell’ossessione di sé stesso e basta, ci conduce sulla strada della noia più semplice e pura esprimendo il desiderio di voler essere il padre di suo padre, di quell’uomo che conobbe gli orrori del nazismo, mentre lui Franz (scimmiottando un po’ Charles Bukowski) ammette che anche lui ha avuto simpatie per il nazismo in età giovanile. In definitiva, ci vuole tanto ma tanto pelo sullo stomaco per riuscire ad arrivare alla fine di questo diario senza capo né coda; bisogna essere disposti ad affrontare ore di noia; e non da ultimo bisogna essere in una disposizione d’animo gentile sin dall’inizio nei confronti dell’autore, perché una volta giunti all’ultima pagina la tentazione forte è quella di scagliarglielo addosso il libro, in piena faccia. A voi la scelta se leggere Krauspenhaar o un qualsiasi titolo di Liala o Moccia.
Un pugno in faccia. Assolutamente da non perdere.
Recensioni
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Franz Krauspenhaar (il ramo paterno della famiglia è originario dei Sudeti, quello materno ligure-calabrese) è stato, prima di questo Era mio padre, autore di altri tre romanzi agevolmente collocabili nella categoria eterogenea e ospitale del noir. Questa sua nuova opera sorprende non solo per la netta cesura rispetto alle precedenti "frequentazioni", ma anche perché si sottrae alla stolida medietas di tante uscite recenti; infatti, anche se per lunghi tratti quasi incondita e rozza, questa è un'opera che turba e scuote, che irrita e disturba: "Voglio che ti prendi una vacanza dall'intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera".
Ma di questo si è grati all'autore; in fondo si continua a leggere per scovare quelle opere capaci di spezzare quel "mare gelato che è dentro di noi", di cui parlava Kafka nella celebre lettera a Oskar Pollak. Così Krauspenhaar ama definire questo testo, rischiando l'ambiguità di una collocazione spuria, romanzo "bioautografico". In questo caso, la prolessi non è mero mot d'esprit, ma il grumo semantico da cui si innesca una ricognizione spietata della propria inadeguatezza esistenziale, rinvenuta nel recupero-sofferto e nella rilettura-dolorosa del proprio passato. Il racconto in presa diretta che caratterizza buona parte dell'opera sembra fatto per placare un'insopprimibile urgenza narrativa, tanto che il libro pare, in molte sue pagine, quasi trascurato a livello di editing. Per fortuna, però, tanta ruvida asprezza stilistica non scade mai, o quasi, nel birignao manieristico. L'autore non sa (forse non vuole: è il diario di un inetto a Milano) chiamarsi fuori da un passato tragico e vischioso, da una materia ancora molto viva da cui si sprigionano furori acri e immedicabili, inquietudini e odi inveterati che il tempo, invece di esulcerare, ha rinvigorito. Scrive infatti Krauspenhaar: "Come pensare che il passato possa svanire? Il passato è passato, si dice. Come si può credere a un'idiozia del genere? Il passato è qui, ora, perché noi siamo passato, noi siamo il passato, il passato passa all'esterno ma rimane nel nostro interno notte e giorno giorno e notte; il passato ci sveglia nei sogni".
Una confessione scontrosa e arrabbiata, che non consente qualsivoglia indulgenza o pietas, anzi; volentieri l'autore colleziona e cataloga quantità considerevoli di disprezzo e di odio, elargendone dosi multiple all'esercito di macchiette, comparse e replicanti che attorniano l'io narrante e che assistono alla sua esistenza, alle sue storie grottesche e febbrili. Un libro fatto di sventatezze e menzogne, di lapsus e pigrizie, di un dolore recitato ed esibito, impudicamente. Una specie di mon coeur mis à nu dei tempi nostri in una Milano la cui alienante disarmonia riesce ad amplificare malanni e rancori irranciditi. La città qui non è mero orpello urbanistico, quinta decorativa ed estetizzante, ma luogo che impedisce l'accesso a qualcosa che, anche solo vagamente, possa assomigliare alla felicità.
Sin da subito, per evitare ogni possibile fraintendimento, l'autore ci prospetta un assioma che fatica a essere condiviso soprattutto da coloro che vedono nella letteratura l'aspetto ludico-artificioso, l'esercizio di stile che sublima e trasfigura. Per Krauspenhhar, invece, "i libri fatti con le viscere e col sangue sono sempre utili: a chi li scrive e, ancora di più, a chi li legge con la giusta partecipazione". Essendo beatamente in partibus infedelium, mi si consenta di nutrire seri dubbi sulla veridicità della seconda parte. Ma sicuramente questo romanzo (?) rientra nella categoria delle opere fatte con le viscere e il sangue, corrosivo e urticante, conto aperto con il passato e il presente (e anche il futuro, sicuramente) di chi l'ha scritto.
Come recita il titolo, il tentativo è quello della costruzione di un mémoire incentrato attorno a una figura paterna, ingombrante e non addomesticabile: un tedesco nato nel luogo (Italia) e nell'epoca sbagliata (anni venti), combattente della Wehrmacht, che, tra mille travagli, compie una scalata sociale che non lo salva però da una specie di dolorosa coscienza del vivere, riflessa nei figli. Dal coacervo di storie che si enuclea attorno alla figura di questo combattente, sempre vocato alla sconfitta, si generano, quasi per filogenesi, una serie di vicende che ricadono pesantemente sull'autore, la cui esistenza è sotto il segno di una precarietà affettiva e sentimentale proposta quale modello unico di vita. Le giornate dell'io narrante sono contrassegnate da una serie di vuoto letargico da ozio infinito, l'ennui di chi si trova a fine corsa senza essere mai partito, che non può essere tacitato attraverso espedienti tipici dell'epoca delle passioni tristi: gli amorazzi, gli aperitivi, le telefonate e gli sms, i post sul blog (Krauspenhaar è redattore del blog collettivo Nazione indiana), i film porno scaricati da internet, il soffocante edipico rapporto con una madre panoptikon.
C'è una scena, in particolare, che mi sembra sintetizzare compiutamente il mood di quest'esistenza banale, asfittica, tormentata, che suscita tenerezza e affetto nel lettore: l'io narrante che accompagna verso casa l'ennesima "fidanzata" e, preso da una specie di raptus incontrollabile, "le abbranco una tetta, la tolgo dal vestito leggero in mezzo alla strada e mi ci attacco con la bocca come un bambino si attacca al morbido e vitale biberon". Linnio Accorroni
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