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2006
30 marzo 2006
208 p., Brossura
9788881767571

Voce della critica

"La quiete non è vita. Trapassare da una in altra vicenda, agitarsi incessante nel tripudio e nell'affanno, percuotere ed essere percosso, amare, odiare, ora angiolo, ora demonio, e verme e Dio… questa si chiama vita". E questo si chiama romanticismo. Romanticismo italiano risorgimentale e democratico, certo, estremista e antimanzoniano. E linguisticamente tutto pieno di latinismi, arcaismi, violenze espressive, anzi virulenze espressioniste che si pongono diametralmente all'opposto del realismo europeo ottocentesco, attingendo a un'astrazione concitata comunque sempre generosa.
Stiamo parlando di Francesco Guerrazzi, e la citazione di apertura era tratta dalla prefazione al suo romanzo L'assedio di Firenze. Che scrittore è Guerrazzi? Irto, pazzesco, illeggibile, ma anche di successo, con L'assedio e La battaglia di Benevento soprattutto, fra gli anni venti e trenta del secolo diciannovesimo. Qui il byronismo, il gotico, il modello Scott, l'educazione classica e la destrutturazione romantica, l'obbligo pedagogico-politico e la descrittività convulsa, tutto questo e altro si mescolano in un tumultuario e spasmodico romanzesco romanzare storico, molto distante dai nostri maggiori ottocenteschi, che siano Manzoni, Verdi, poi Verga. Tuttavia Guerrazzi non si esaurisce in questi prodotti affascinanti e repellenti insieme. Un secondo Guerrazzi è quello che interessa particolarmente la critica recente, un Guerrazzi sempre sopra le righe ma ironico, nutrito di sternismo, erratico e digressivo, morale e satirico, distanziante e pur sempre didattico. Il Guerrazzi dell'Asino, del Buco nel muro, e anche di questi due scritti pubblicati ora da Manni per le cure di Alessio Giannanti e con l'introduzione di uno specialista come Carlo Madrignani, benemerito nell'editoria (non solo accademica) di narrativa dell'Ottocento. Si tratta di un racconto, anzi un dittico a due ante, Storia di un moscone (1858), e di un saggio militante, Dello scrittore italiano (1857); le vicende redazionali complesse di questi scritti sono ricostruite minuziosamente dal Giannanti nella nota al testo.
Il Moscone è di materia corsa, narrando la vicenda di un bandito moderno e poi di un tirannicidio medievale; infatti fu scritto da Guerrazzi proprio nel periodo dell'esilio in Corsica, fra il 1853 e il 1856, e si affianca ad altri due romanzi legati alla storia dell'isola, la quasi eroicomica Torre di Nonza, uscita nel 1857, e il più celebre Pasquale Paoli, del 1860. Certo, il motivo libertario fieramente declinato in narratività corrusca e macabra rimanda al Guerrazzi più "popolare" dei precedenti romanzi, ma lo stile è decisamente imparentato con l'altro Ottocento italiano, quello dell'antiromanzo digressivo, ironico e sperimentale, la linea non manzoniana, insomma, così cara a critici diversi fra loro ma ugualmente imprescindibili come sono stati un Mazzacurati e un Contini. Il linguaggio del Moscone gioca con una lingua classicheggiante, arcaizzante e creativa costruendo un percorso accidentato e però sommamente ironico, nel senso della distanza non da un contenuto di verità e da una didassi, bensì da un esprimersi narrativo che sia di grado zero, elementare. Non si può stare in pianura, con la lingua di questo Guerrazzi, ma si deve osservare tutto sempre da un'altitudine straniante e pure mai sfiduciata. Leggiamo l'attacco: "Come se avesse intelletto di amore, ogni stella, esultando veniva a fare omaggio della luce giulìa alla gloria del mattino, il quale accendeva tutto l'universo con un battere di palpebra" ecc. Due componenti risultano evidenti in modo mostruoso, l'allusività ironica (il danteschissimo "intelletto di amore") e il metaforeggiare iperbolico; "Dio mi perdoni la immaginazione barocca", scrive dopo poco l'autore. Si tratta appunto di dispositivi distanzianti, ironici in senso tecnico, che Guerrazzi ormai adopera con una giocosità molto seria, giammai per demistificare l'umano, in cui crede sempre, anzi, per correre se mai alla fine del racconto verso un inno alla libertà, pagina di quelle che ci rendono caro uno scrittore così senza misura.
Il saggio Dello scrittore italiano viene poi ripubblicato molto a ragione, giacché è un documento rilevante del gusto di Guerrazzi e di una generazione di letterati risorgimentali democratici; certo l'elemento che più fa chiasso e ci stimola è il paragone fra Byron e Leopardi, a tutto discapito di quest'ultimo. Se la disperazione leopardiana è sentita come infeconda e quindi statica e dannosa, mentre l'impeto byroniano è sempre attivo, ciò si deve a una concezione della letteratura che è granitica in Guerrazzi: la poesia deve animare l'individuo e non annichilirlo, deve celebrare "Religione, Patria, Famiglia": sì, pure religione, per uno scrittore antiateista e insieme anticlericale.
"Le lettere prima di ogni altro indizio prenunciano il fine della barbarie". Il progressista Guerrazzi può far storcere il naso, ma certo lui nel consorzio umano come casa comune della libertà ci credeva e ci sperava davvero, senza falsificazioni.
  Roberto Gigliucci

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