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Dopo quasi quarant’anni, Guanda ripropone il romanzo-saggio, o meglio “saggio romanzato” (come propone acutamente Giovanni Raboni, autore della nuova prefazione) di Ottiero Ottieri, uscito nel lontano 1966 e vincitore del premio Viareggio per la saggistica. Capolavoro inclassificabile, scritto in una lingua mobile, nervosa, difficile, ma bellissima, in cui tutto sembra muoversi e mutare, dall’andamento apparentemente piano e distaccato, mentre in realtà scrittura impressa sulla carne, sul corpo, sulla sofferenza. Attraverso il proprio eteronomo, lo scrittore Vittorio Lucioli (che rappresenta la distanza critica dalla propria sofferenza), Ottieri ingaggia la propria lotta contro il male, nella continua oscillazione tra la rappresentazione di esso e la sofferenza fisica, tra sintomo e ragione nella paura costante che anche il dolore e la scrittura sul dolore possano rivelarsi astuzie del narcisismo. Ottieni opera una speleologia del dolore che cerca di stare al passo con un pensiero della vertigine, l’irrealtà, categoria che non si riduce né alla depressione, né all’alienazione, né tantomeno all’assurdo ma forse alla variante romanzesca della “noia” di Moravia. L’irrealtà (per sua natura ambigua, amorfa, figurativamente intuita ed espressa da Michelangelo Antonioni ne L’Eclisse) è la depersonalizzazione, che sia Marx sia Freud chiamavano con lo stesso nome Entfremdung, che non è un’alienazione da qualcosa, ma una consegna “a un potere estraneo” che non siamo più noi, una sorta di resa totale all’egemonia delle cose, alla reificazione che non ci permette di essere più liberi. Uno smarrimento nel pieno del mondo, nell’ovvietà quotidiana, che nessuna scienza umana, per Ottieri, può afferrare. Irrealtà che ha il suo centro in quello che l’autore chiama il male, il dramma della scelta che Ottieri inscena subito, sin dalle prime righe: “appena si decide una via, si finisce per decidere anche la via opposta”.
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