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Etiche dell'intenzione. Ideologia e linguaggi nell'architettura italiana - Giovanni Durbiano - copertina
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Descrizione


Il libro attraversa la vicenda dell'architettura italiana, dal dopoguerra a oggi, per rendere palese il ruolo decisivo dell'intenzionalità autoriale, spesso giocato in funzione auto legittimante. Le figure di Aldo Rossi, Canella, Gabetti e Isola, ma anche Aymonino, Gregotti, Raineri sono accomunate da una medesima convinzione che l'architettura sia in primo luogo una proiezione di sé, delle proprie intenzionalità figurative. Un egotismo linguistico che è la fortuna di questi architetti, ma anche la causa principale della marginalità dell'attuale architettura italiana. Il libro denuncia i limiti di questa autorialità pervicacemente perseguita nella professione e soprattutto nell'università, dove l'insegnamento spesso si riduce alla riproposizione di stilemi linguistici, seppur d'autore. In conclusione il libro tenta la costruzione di un paradigma diverso, in grado di accogliere e interpretare i valori degli altri.
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Dettagli

2014
27 marzo 2014
Libro universitario
200 p., ill. , Brossura
9788882731465

Voce della critica

  Questo libro nasce dal permanente disagio, tutto italiano, per la perdita di effettualità dell'architettura, che gode di scarsa considerazione e di esiguo credito sociale: una disciplina considerata inutile. A torto, perché essendo la sola capace di qualificare lo spazio dove si svolgono le nostre vite, sarebbe quanto mai necessaria. Ma se una teorica necessità di architettura esiste, perché non viene riconosciuta ed espressa dai cittadini-utenti? Perché non si traduce in richiesta di qualificazione degli ambienti costruiti? Qui il ragionamento necessariamente esplode in una pluralità di direzioni. Giovanni Durbiano ne sceglie una, chiedendo: c'è un nesso tra il modo nel quale si sono proposti gli architetti al corpo sociale (a un tempo mandante e destinatario del loro operato) e l'attuale marginalità dell'architettura? Risponde Durbiano: gli architetti che per oltre tre decadi hanno rappresentato la cultura architettonica italiana (Rossi, Canella, Gabetti, Isola, Aymonino) aderirono in gran parte all'appello al realismo lanciato dal Pci, ipostatizzarono il popolo quale referente delle proprie azioni e seguirono il Partito nel suo assurdo zdanovismo, che ricusava in blocco l'esperienza della modernità. Di conseguenza, per elaborare un linguaggio architettonico "comprensibile al popolo", questi architetti attinsero alle esperienze architettoniche premoderne, nella convinzione, mai verificata, che esse risultassero intellegibili al cittadino comune. In questo modo, l'attività progettuale abbracciava la storia, induceva qualche critico a parlare di "ritirata italiana dal movimento moderno" e, soprattutto, produceva un effetto collaterale indesiderato e potente: il progressivo allontanamento dalla realtà da parte della disciplina, che si ripiegava su se stessa. Perduto il contatto con le contingenze e con il corpo sociale, l'operato di questi architetti perdeva la legittimazione che nasce dall'attrito con la realtà e la sostituiva con l'autorialità dei progettisti, che nel frattempo avevano ciascuno definito un proprio repertorio espressivo, in barba alla ricerca della koiné dalla quale erano partiti: "E così gli impegnati architetti sociali sono diventati progressivamente artisti, produttori di forme astratte, di figure parlanti di e a un mondo circoscritto alla dimensione segnica". In tal modo si tagliavano tutti i ponti con la realtà e si contribuiva a confinare l'architettura in quel limbo di ineffettualità, nel quale giace tutt'ora. L'analisi di Durbiano, che percorre circa mezzo secolo di architettura italiana, è impietosa e ispirata da vis polemica: qualità che la rendono necessaria. Tuttavia, lungo la narrazione, non solo vengono assimilate figure e vicende intellettuali, politiche e professionali che poco condividono, ma si rileva anche qualche assenza: quelle di Muratori, di De Carlo e della nozione di spazio. Muratori, il vero inventore dell'analisi urbana e il sostenitore di un approccio oggettivante alla disciplina, avrebbe fornito ulteriori argomenti contro il soggettivismo e la deriva autoriale. De Carlo avrebbe costituito un eccellente antipolo rispetto al gruppo di architetti considerati da Durbiano: essendo sempre stato De Carlo contro l'autonomia dell'architettura, contro lo storicismo (ma non contro la storia) e contro l'egotismo degli architetti, pur essendo anch'egli stato un "autore". Ancora, se la cultura architettonica avesse risposto all'appello al realismo anche attraverso la nozione di spazio, avrebbe potuto leggere i nessi tra pratiche sociali e pratiche dello spazio per acquisire più oggettive conoscenze da spendere nel progetto, marginalizzare le questioni stilistiche e, infine, evitare il distacco dalla realtàrilevato da Durbiano. Purtroppo, che lo spazio (o, più esattamente, il suo "registro antropologico") sia un grande assente nell'architettura italiana, è fatto noto. Congedato "l'architetto-autore", Durbiano propone un differente profilo professionale: "l'architetto-traduttore", l'operato del quale trae legittimità non più dall'autenticità autoriale, ma dalla capacità negoziale e prefigurativa che egli può portare sui tavoli decisionali. "Nella città contemporanea, abitata da moltitudini di minoranze, ognuna in cerca di un territorio da costruire a propria immagine e somiglianza, l'impegno politico progettuale (…) non può che essere finalizzato alla costruzione di relazioni, di luoghi d'incontro tra universi formali e attese sociali. Qui sta la capacità del progettista-traduttore, di disporre le figure per la mediazione". Si può condividere la necessità di questa capacità, anche se non indispensabile per tutte le situazioni del fare architettura e, in verità, da sempre parte integrante del saper fare degli architetti più accorti. Però chiediamo a Durbiano: cosa sono le figure evocate, se non soggettive composizioni di forze discordi? E, dismessa l'autorialità, chi si assume l'ineludibile onere della scrittura architettonica?   Federico Bilò  

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