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L' immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario - Pietro Montani - copertina
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L' immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario - Pietro Montani - copertina

Dettagli

2
2000
1 gennaio 2000
124 p.
9788883350153

Voce della critica


recensioni di Tomasi, D. L'Indice del 1999, n. 12

In Pierrot le fou (Godard, 1969), il protagonista Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) enuncia un ambizioso progetto "narrativo": "Ho trovato l'idea di un romanzo. Non più scrivere la vita della gente. Ma soltanto la vita. La vita da sola. Quello che c'è tra la gente: lo spazio, il suono, i colori". È proprio a partire da questa affermazione che Pietro Montani, docente di Estetica alla "Sapienza" di Roma e curatore dell'edizione italiana della monumentale opera teorica di Sergej M. Ejzen≤tejn, costruisce le ipotesi di fondo del suo L'immaginazione narrativa. Secondo Montani, il cinema, almeno in una sua certa tendenza, ha dato vita ad un universo narrativo irriducibile ai canoni della tradizione letteraria, ha "spinto la dimensione del racconto oltre gli schemi di composizione del testo scritto", approdando a una dimensione "oltre-letteraria", in grado di "risalire sino alle radici profonde del racconto" stesso, di esplorare quella "regione immaginativa in cui, prima ancora di trovare le sue forme, la comprensione narrativa delle cose e del tempo che le connette si fa cogliere nel suo più originario, e problematico, dischiudersi".
Rifacendosi, sul piano teorico, a Kant, Nietzsche, Ricoeur, Merleau-Ponty, Bazin e Deleuze, nonché a Ejzen≤tejn e Vertov (a cui sono dedicati i primi due capitoli del libro), Montani mette in luce la disponibilità del cinema a occupare e a problematizzare quell'"apertura originaria in cui ne va della disposizione reciproca del 'fattuale' e del 'finzionale', del dato e del costruito, della cosa e dello sguardo". In altre parole, della "vita della gente" (che può essere raccontata) e della "vita da sola" (che invece non appartiene all'ordine del narrativo). Del resto, come sosteneva Bazin, è solo nel momento in cui è riuscito a riappropriarsi del suo realismo di base che il cinema ha saputo raggiungere una piena e autonoma capacità narrativa.
Il complesso e intrigante discorso teorico dell'autore è continuamente sorretto da una serie di puntuali e illuminanti analisi filmiche che, al di fuori di qualsiasi "mira sistematica", hanno il compito di esemplificare e sostenere le diverse tesi esposte. Si stabilisce così un dialogo serrato con "un certo modo" di fare cinema che individua i suoi oggetti privilegiati nelle opere di autori come Godard, Resnais, Kieslowski, Lynch, Beckett e Kiarostami. Pur in forme diverse che pongono l'accento su questioni particolari, i film di questi autori - a cui ci sentiremmo in dovere di aggiungere anche quelli di Wenders - rappresentano una tendenza che "non mira a perlustrare le radici profonde del racconto al fine di distruggerlo, mira piuttosto a fare ritornare sull'istanza del racconto la complessità della prestazione immaginativa originaria da cui quell'istanza dipende". Ovvero una "prestazione" che si muove in quello spazio intermedio proprio dell'immaginazione tra "qualco-sa che è dato" (il "fattuale") e "qualcosa che ha senso" (il "finzionale").
In un tale orizzonte concettuale, una questione di fondamentale importanza è quella del rapporto fra il tempo del racconto e il tempo della vita, fra la "chiusura finzionale" dell'uno e l'"apertura fattuale" dell'altro. Una risposta di altissima qualità narrativa a questo problema è quella offerta - secondo Montani - dalla trilogia di Kiarostami formata da Dov'è la casa del mio amico (1989), E la vita continua (1990) e Sotto gli ulivi (1993). L'analisi dei tre film - che chiude il libro - è troppo ricca e articolata per poter essere qui riassunta nel suo complesso, limitiamoci quindi a sintetizzare le osservazioni di Montani a proposito della scena conclusiva di E la vita continua. Il film, come si ricorderà, racconta la storia di un regista alla ricerca del bambino che aveva interpretato una sua precedente pellicola e che potrebbe essere morto a causa del terribile terremoto del 1990. Fermo vicino alla sua Renault gialla, il protagonista, nell'ultima scena del film, osserva in lontananza le minuscole figure di un uomo e un bambino che camminano lungo la strada. Risalito in auto, l'uomo riparte. L'inquadratura, in campo lunghissimo, mostra la Renault percorrere tutto lo spazio inquadrato sino a che l'auto non esce di campo. Davanti ai nostri occhi lo spazio continuerà a rimanere vuoto per l'intera durata dei titoli di coda. Ora, chi era quel bambino che il regista osservava in lontananza? Era forse il piccolo protagonista del suo film precedente? Riuscirà la Renault a raggiungerlo? Tutto ciò è possibile, anzi probabile, "ma l'incontro, posto che ci sia e che sia quello che ci è stato suggerito, si colloca oltre il film, e cioè nel fuori campo che l'inquadratura finale delimita e trattiene, per un certo tempo (sufficientemente lungo), nella condizione di occuparci interamente con la sua invisibilità". Il film così, e proprio in quel momento chiave di ogni racconto che è il suo compimento, "allude potentemente al fatto che, oltre quella chiusura, la vita continua e in qualche modo lo mette in immagine e gli dà un tempo: il tempo della vita. Il film allude a questo fatto e a questo tempo, ma non ce li fa vedere, proiettandoli al di là della sua unità narrativa, ossia precisamente nella condizione non rappresentabile, non raccontabile, non compibile che è quella della vita. Nondimeno questa condizione (...) viene raggiunta e mostrata in virtù di un racconto e, anzi, proprio in virtù di ciò che un racconto ha di più proprio, vale a dire il suo giungere a compimento".

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