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"Vorrei passeggiare, ma come si fa? piove!". Così comincia il diario romano dello scrittore più trasgressivo del nostro Ottocento, il partenopeo Vittorio Imbriani. Le sue pagine dedicate alla nuova capitale dell'Italia unita risalgono agli anni 1871-1877 e sono (come osserva il curatore del volume) un'autentica "enciclopedia dell'ingiuria". Come tanti altri viaggiatori insensibili al fascino di Roma, da Hawthorne a Zola, fino al nostro Papini, Imbriani è critico ferocissimo della città e dei suoi monumenti, ma nel suo caso la rabbia ha precise motivazioni ideologiche e politiche: Roma diventa l'apocalittico emblema del fallimento delle speranze risorgimentali, dell'atroce trasformazione di un ideale in cinico opportunismo e dell'Italia eroica in una cloaca. Pagina essenziale è allora quella sul "baraccone" di Montecitorio, "mercato vilissimo, nel quale da barattieri ignoranti si traffica dello Stato, dell'Italia e della Monarchia". Come in tutti i suoi romanzi e i suoi racconti, qui lo scrittore esibisce una straordinaria furia deformante, un'espressionistica dismisura, indirizzate però alla polemica e al sarcasmo. O meglio: al rifiuto integrale e senza compromessi del presente, con un astio e insieme una malinconia che rinviano al sogno utopico di uno stato perfetto, di un mondo bene ordinato e onesto, impossibile però, e ridicolizzato dalle medesime parole di Imbriani. Questo è il nucleo profondo delle Passeggiate romane, che si travestono solo per un attimo da curiose divagazioni turistiche (quanto sono diverse le stendhaliane Promenades dans Rome) e disegnano piuttosto il livido profilo di un inferno: una dantesca bolgia dove tutto è a rovescio, dove "piove" eternamente quando si vorrebbe "passeggiare" e dove meglio sarebbe "pietrificarsi, divenire statua inerte e gelida, fino al benedetto giorno" del giudizio finale.
Rinaldo Rinaldi
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