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Da consigliare caldamente a tutti, e massime ai giovani, la lettura di questo libro, perché dice le cose come stanno (ovvero come stavano) in merito alla nostra avanguardia proto-novecentesca e alla sua precisa consistenza politica. Il volume si articola, dopo un'introduzione in cui l'ermeneutica gramsciana è opportunamente al centro del discorso, in alcuni capitoli dedicati ai legami che strinsero storicamente il futurismo ora al nazionalismo, ora all'arditismo, ora al fascismo, e in altri capitoli che delineano la vicenda del meteorico Partito futurista italiano, o approfondiscono il bellicismo futurista nelle diverse occasioni che si presentarono, dalla guerra di Libia alla Grande guerra al 1919, o cercano di carpire le frange ultra-minoritarie di un futurismo di sinistra, o infine descrivono il crepuscolo del futurismo nel corso del regime, o meglio il suo "trionfo" ambiguamente istituzionale. Segue una dettagliata cronologia e un'antologia di testi davvero illuminante, soprattutto per i non specialisti.
Bene, il maggior pregio del volume è la chiarezza, non solo di esposizione ma di posizione. D'Orsi, nobilmente sul solco di Bobbio, ritiene funzionale la distinzione destra-sinistra per capire la storia e la politica, e non esita a collocare, con dovizia di documentazione, il futurismo nella cultura di destra. È bene che sia chiaro: le operazioni compiute da sinistra per interpretare il futurismo, almeno nella sua forma originaria come movimento artistico rivoluzionario svincolabile dal pensiero-azione di destra che ha strutturato il Novecento europeo (ovvero la sua prima metà), sono operazioni fallimentari. Il futurismo è l'avanguardia della filosofia/prassi della violenza, della guerra, dell'assalto, della virilità, della penetrazione e sfondamento, dell'inegalitarismo, della modernità come massacro, dell'estetizzazione della forza come splendore primitivo dei maschi àristoi e quindi paradigma di governo delle masse. D'Orsi fa bene a citare spesso Mario Morasso e il suo niccianesimo un po' bruto ma facile a essere assimilato. E ha buon gioco a evidenziare il ruolo centrale che ha l'esaltazione della guerra nella vicenda del futurismo e di Marinetti, dal manifesto del nove al funebre penoso Quarto d'ora di poesia della X Mas del '44. Il flirt con il massacro, che identifica la modernità, è lussuria futurista fino in fondo; l'estasi disgustosa del carnaio e del sangue che connota la cultura lacerbiana è consustanziale al marinettismo. E così via.
L'Italia, insomma, è stata avanguardia del fascismo, ovvero dei fascismi europei, ed è stata avanguardia dell'avanguardia, avendola inventata con il futurismo e quindi avendola definita come destrudo estetica e socio-antropologica. Questa è cultura di destra novecentesca, solo che mentre Benn, o Céline, o Pound, o Cioran, in percorsi ideologici e biografici diversi, sono stati grandissimi scrittori, Marinetti e gli altri sono risultati ineluttabilmente mediocri sul piano delle risultanze artistiche. D'Orsi non affronta direttamente il giudizio di valore in sede estetica, e quindi sono interamente responsabile di queste righe conclusive: sul futurismo, proprio in occasione delle ricorrenze e delle celebrazioni, bisogna avere l'occhio limpido e il giudizio sgombro. Se l'Italia storicamente ha avuto (e forse ha ancora) il privilegio genioso di proporre l'avanguardia politica del peggio, non cerchiamo di indorarci la pillola. E riconosciamo serenamente che si può sempre migliorare.
Roberto Gigliucci
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