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Piuttosto che fiondarsi nella Storia come personaggio, Mussolini avrebbe forse dovuto continuare a scrivere romanzi storici d'appendice. Si fa leggere L'amante del Cardinale. Claudia Particella - a puntate su «Il Popolo» di Trento, tra il gennaio e il maggio del 1910 - e si sintonizza con molto romanzesco otto-novecentesco, nostrano e non; tanto che si fatica un po' a seguire Orvieto, che cita parecchi narratori italiani del XIX secolo, specie quelli impegnati in incursioni storiche, da Manzoni in su, e molte trame internazionali e nazionali del gotico, della letteratura dei misteri e di quella femminile tra fine Settecento e seconda metà dell'Ottocento. Anche se, a selezionare i punti fermi della sua Introduzione, restano sostanzialmente due nomi: Garibaldi a monte, d'Annunzio a valle. Il primo è citato e discusso soprattutto per il suo anticlericalismo, a partire da quello torrenziale della Clelia o il governo del monaco - declinato pure come governo dei preti - che è del 1870; il secondo per i soliti luoghi comuni di certa narrativa finescolare, ovvero la femme fatale e la complementare (e altrettanto fatale) misoginia fin de siècle. In sintesi, il mix, nel romanzo mussoliniano, suona così: don Benizio, assimilabile a preti e monaci di Radcliffe e Lewis, è un misogino che vuole possedere la femme fatale Claudia. Siccome quest'ultima è fedele al Cardinale Emanuele Madruzzo, vescovo-principe di Trento, don Benizio - quasi alter ego di Benito, suggerisce Orvieto - si allea con il conte di Castelnuovo e avvelena la protagonista. Ironia della sorte, Claudia muore prima di rinnegare la sua fedeltà e di riuscire a mettere in atto un potenziale tradimento con un giovane ufficiale di stirpe ungherese, occasionalmente incrociato a un banchetto l'ultima sera della sua vita. Trattasi, insomma, di cortigiana onesta più d'una matrona, il cui sogno è quello d'essere accettata dalla comunità delle anime trentine come sposa del cardinale, via dispensa papale, oppure di fuggire romanticamente con lui. E finirà invece per incarnare, la povera Claudia, il ruolo del capro espiatorio, per le debolezze politiche dell'amante, l'ignoranza del popolo tutto, le gelosie dei preti. E di fatale ci resta pochino, in questo personaggio femminile, e restano esteriori le facili, iterate associazioni di Claudia a Cleopatra (come quelle di Don Benizio al diavolo). Tanto che - a voler rimanere nella narrativa di quegli anni ma senza usarla come alibi (senza dimenticare l'autore, non ancora, comunque, duce dell'Italia fascista) - più che a d'Annunzio, viene da pensare a Fogazzaro e, perché no?, proprio a quel Fogazzaro che nel 1910 pubblica, pochi mesi prima di morire, Leila. Le solitudini notturne sposate da Claudia intorno all'acqua, circondata dalla natura, e l'arte popolare, poco raffinata ma molto appassionata, che le veicola, sono quanto meno spie di una "sintonia epocale" più fogazzariana che dannunziana. E in tal senso è anche più facile spiegare l'orizzonte d'attesa del romanzo, che esce su «Il Popolo» di Battisti ma mira anche a un pubblico di fruitori medio. Ecco allora che in questa affabulazione mussoliniana si nota già l'arte del compromesso, tesa a sfumare l'anticlericalismo. Garibaldi si allontana, d'Annunzio pure, mentre il Re e il Papa, come è noto, si avvicineranno. Al patto narrativo subentrerà un patto storico ma già il lettore modello de L'amante del cardinale - checché ne dica Mussolini all'inizio degli anni Trenta, et pour cause - non è un anticlericale d'antan ma un lettore benpensante e cattolico. Luciano Curreri
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