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Secondo l'autore di questo libro, Rorty attribuisce all'opera di Derrida un carattere doppiamento privato: privata poiché rompe con ogni pretesa metafisico-trascendentale privatizzandosi nell’autobiografia, ma privata anche perché si priva di qualsiasi velleità politica. Ed è proprio questa doppia privatezza che viene messa in discussione nel libro: dopo aver ricostruito nel primo capitolo il contesto e il tono della riscrittura di Rorty del pensiero derridiano, negli altri due capitoli viene analizzata e discussa la fondatezza della potente macchina di lettura assemblata da Rorty. Due dunque le mosse che l'autore compie: nel secondo capitolo si cerca di mostrare come non sia giustificato dipingere Derrida come un pensatore semplicemente non-trascendentale, nel capitolo finale invece viene criticato l’esilio dalla pubblicità del mondo politico a cui Rorty vorrebbe destinare la decostruzione per salvarla dalle accuse del neo-illuminismo habermasiano. Davvero ben argomentata e ben scritta questa "difesa" di Derrida dal tentativo di Rorty di neutralizzare la decostruzione. Ecco cosa afferma Fabbri nei passaggi conclusivi del libro: "Non è difficile scorgere sotto la paura che Rorty nutre per la prassi decostruzione tutta la disapprovazione da liberale americano per un’etica impegnata ad aumentare le chances che un evento esplosivo, un divenire che ponga in questione le pratiche che siamo oggi, arrivi a donarsi. Bisogna assolutamente evitare che, nell’invenzione della differenza e dell’altrimenti, si produca la traumatica consapevolezza che il noi in cui viviamo oggi è frutto di una storia, è contingente e revocabile". È per questo che risulta urgente sentenziare una doppia privatezza alla decostruzione: pena della privatezza come isolamento di un’alterazione d’equilibro, pena della privatezza per prevenire un propagarsi di tale alterazione. Addomesticare Derrida sembra dunque essere l'unico vero imperativo categorico dell'interpretazione di Rorty.
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