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In nome della razza ariana. Il viaggio di una donna alla ricerca della propria identità
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Descrizione


Il silenzio di una madre prigioniera di un oscuro passato. Il cuore di una bimba che non riesce a comprendere perché continui a mentirle, perché non sappia accarezzarla. E l'eterna sensazione che qualcosa non quadri, che in lei ci sia qualcosa di sbagliato, finché, ormai adulta, il confronto con quel passato diviene inevitabile, e allora non resta che attraversare un ponte pregno di ricordi, di conflitti mai risolti. La storia vera di una donna alla ricerca della propria identità, che ha bisogno di conoscere la verità come dell'aria che respira.
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Dettagli

2004
23 novembre 2004
335 p., Brossura
9788884904942

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Voce della critica

Al centro della rievocazione che ci ha offerto l'autrice vi è il Lebensborn, un istituto delle SS organicamente inserito nella politica razzistica dello stato nazista. Sul Lebensborn e sul ruolo da esso svolto durante il III Reich sono circolate molte leggende, che hanno contribuito a una visione distorta della realtà. La prima è l'immagine del Lebensborn come laboratorio per la fabbricazione di una pretesa pura razza ariana, attraverso l'accoppiamento di elementi di élite delle SS e giovani donne tedesche selezionate per il loro "eccezionale valore razziale", o, più prosaicamente, come "bordello di lusso" per gli apparati di vertice delle SS. Su di un altro versante, subito dopo la guerra, si affermò invece una rappresentazione del tutto rassicurante del Lebensborn come un'istituzione dagli scopi assistenziali e dagli effetti incontestabilmente benefici: in sostanza, come una sorta di anticipazione del moderno Welfare State nel campo del sostegno statale alla maternità, con particolare riferimento alle ragazze madri e ai bambini illegittimi, alla loro cura, alla loro tutela giuridica, alla loro adozione presso famiglie tedesche.

Come l'autrice ricorda nel capitolo finale, questa versione non meno falsata della realtà fu avvalorata nel 1948 dallo stesso processo di Norimberga e da un successivo processo tenutosi a Monaco nel 1950: in entrambi i casi i dirigenti del Lebensborn vennero assolti e solo i due massimi responsabili, Max Sollmann e Gregor Ebner, vennero condannati a pene irrisorie, non già per attività a esso legate, bensì per la loro appartenenza agli alti gradi delle SS. Soltanto negli anni settanta e ottanta le ricerche sul rapporto tra nazismo e società tedesca, sui caratteri di quello che gli storici Burleigh e Wippermann hanno definito lo "stato razziale" e sui meccanismi di integrazione-esclusione legati alla Volksgemeinschaft, hanno permesso di approfondire anche la collocazione e le attività del Lebensborn.

Il Lebensborn, fondato nel 1934, fu strettamente legato alla Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (Nsv), l'organizzazione assistenziale della Nsdap, che, tra i vari suoi ambiti, includeva il "Soccorso alla madre e al bambino". All'inizio il Lebensborn gestiva cliniche di maternità in varie parti della Germania, dove donne nubili, e più raramente sposate, potevano partorire. Solo le donne e i bimbi ritenuti biologicamente validi avevano il diritto all'assistenza, mentre tutte le donne estranee alla comunità popolare, o considerate di stirpe inferiore, ne erano escluse. Un altro campo di attività fu quello delle adozioni dei bambini che le madri non intendevano allevare, una questione anch'essa trattata con criteri politico-razziali. Il Lebensborn si occupava di assistere per la maternità ragazze nubili particolarmente selezionate e di trovare un'altra destinazione per i loro figli, anch'essi "selezionati razzialmente" presso genitori adottivi di "sangue tedesco". A partire dal 1940-41 i bambini affetti da vere o presunte malattie ereditarie, vennero così inseriti nei programmi di "eutanasia".

La pagina più nera della storia di questi istituti si apre con la seconda guerra mondiale e con l'occupazione dell'Europa da parte della Germania nazista. Al primo posto vi era il problema dei bambini nati dalla unioni tra militari tedeschi e membri delle SS con donne dei paesi dell'Europa occidentale e soprattutto dell'area scandinava. Furono così aperti centri di accoglienza per gestanti nella Francia occupata, in Olanda e soprattutto in Norvegia, dove fu il Lebensborn ad assicurarsi una sorta di monopolio per la presunta purezza della locale "razza nordica", aprendo ben otto centri in cui nacquero circa novemila bambini. Entrambe le organizzazioni si adoperarono in seguito per la germanizzazione di madri e bambini, o costringendo le puerpere a trasferirsi nel Reich, o privandole dei figli e dandoli in adozione a genitori tedeschi di sicuro affidamento, dopo averne cancellato l'identità.

Sia la Nsv che il Lebensborn operarono anche nei territori occupati della Polonia, dove furono coinvolti nelle politiche di sradicamento nazionale e di genocidio legate alla progettata germanizzazione dell'Europa orientale. Entrambe le istituzioni furono infatti preposte alla selezione razziale dei bambini fino ai sei anni che risiedevano soprattutto nelle zone miste di confine annesse al Terzo Reich. Oltre duecentomila bambini giudicati "razzialmente validi", sottratti agli orfanotrofi, oppure i cui genitori erano stati uccisi, o anche direttamente strappati ai genitori, furono sottoposti a test fisici, psicologici e razziali, per essere poi privati della loro identità e assegnati a genitori adottivi residenti in Germania. Infine, un'altra impresa criminale, che coinvolse i due istituti, riguardò le donne polacche e sovietiche deportate in Germania per i lavori forzati, e che erano rimaste incinte. Dal 1942 si istituirono appositi centri, dove i rappresentanti della Nsv e delle SS selezionavano i neonati e con criteri di gerarchia razziale li assegnavano al Lebensborn o alla Nsv, oppure li lasciavano morire di inedia nei cosiddetti "Centri di assistenza per bambini stranieri".

Questo libro ci parla di una bambina nata da una relazione extraconiugale tra il comandante di un'accademia militare delle SS e la sua segretaria, che fu poi impiegata in diversi uffici del Lebensborn. Nata in un centro del Lebensborn a Oslo, Gisela fu relativamente più fortunata, perché visse con la madre e la nonna in Germania. Tuttavia la madre, dopo averla affidata fino a tre anni alla zia, al fine di evitare le sanzioni morali dei suoi concittadini bavaresi, cercò tenacemente di nasconderle le circostanze della sua nascita e l'esistenza stessa del padre, cosicché l'intera sua vita sarebbe stata scandita dalla dolorosa ricostruzione del puzzle della sua vera identità. Questa ricerca si intreccia con un confronto sempre più aspro e doloroso con le false verità, le reticenze, i processi di rimozione e di autoassoluzione che segneranno sino all'ultimo la strategia difensiva della figura materna, ma trarrà alimento da una presa di coscienza della realtà storica del nazismo che fu nella Germania federale un tratto tipico dei giovani degli anni sessanta e della loro rivolta verso la "generazione dei padri", per le corresponsabilità con i crimini del regime, ma anche per l'incapacità di avviare una vera "resa dei conti" con il passato.

Questa ricerca evidenzia inoltre anche altri casi umani molto più drammatici, che gettano luce su una condizione esistenziale ben più diffusa nelle due Germanie di quanto sia stato ritenuto sino a tempi relativamente recenti. Un vero e proprio colpo di scena all'interno di tale percorso è tuttavia costituito dalla scoperta e dall'incontro con il padre, e con il suo mondo, tutt'altro che rinnegato, dei reduci delle SS. Con molta finezza e onestà intellettuale, Gisela rievoca i processi mentali attraverso i quali l'essere stata finalmente accolta in una "vera famiglia" le abbia imposto di credere che "quelle" SS non avessero "nulla a che vedere con le 'altre' SS" e a non fare alcuna domanda sulle atrocità commesse in nome di quegli "ideali" che anche il padre condivideva. Anche in seguito, divenuta ancora più consapevole, Gisela si sarebbe affidata a "un tabù inespresso: non si doveva parlare di politica", e solo alla vigilia della morte del padre avrebbe espresso per lettera "i pensieri che (la) tormentavano" e i sentimenti ambivalenti che provava nei suoi confronti, "l'amore per lui come persona e il rifiuto dell'ufficiale delle SS". Una domanda a cui ella non saprà tuttavia rispondere sarà il perché avesse "perdonato lui" e continuasse a "provare rancore" nei confronti della madre.

È d'obbligo aggiungere che questo libro, la cui struttura per continui flashback rende la lettura particolarmente coinvolgente, si raccomanda non solo per la sua qualità intrinseca e per la riflessione storica sul Lebensborn che propone, ma anche per il quadro che lascia trasparire della Germania dell'"anno zero" e dei processi di rimozione politica e psicologica del nazismo che caratterizzarono non solo l'orientamento cristiano-moderato del cancelliere Adenauer, ma anche l'atteggiamento di una parte non piccola della popolazione tedesca che aveva sostenuto il regime e che era riuscita, come scrive Gisela, "a convivere con il dolore e con la morte" perché era stata anestetizzata dall'ideologia nazista, oppure, nel migliore dei casi, non aveva voluto né sapere né vedere. Queste stesse persone in cui poteva specchiarsi l'immagine della sua stessa madre, aggiunge Gisela, nel dopoguerra erano riuscite "a sigillare questa fase della loro vita, a dichiararla tabù", e a continuare in altri ambiti la loro esistenza, come "se nulla fosse successo".

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