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Un libro di saggistica curato da una giornalista, Nicoletta Polla-Mattiot, che sa "andare in fondo alle cose e non restare a galla". Un libro trasversale, inoltre, secondo uno stile che sembra imporsi di questi tempi e che vuole che un argomento venga affrontato da varie discipline, letto da diverse angolature e prospettive. Qui le prospettive che si intersecano sono quelle della psicologia e della psicoanalisi, dell'arte, della musica e del teatro, delle scienze naturali, dell'antropologia e della geografia, infine della retorica. E l'argomento messo a fuoco in questo studio è il silenzio. Ma il silenzio, vien subito da controbattere, è un fenomeno molto particolare perché di fatto non c'è, non è nient'altro che negazione. Il silenzio è assenza di rumori, voci e suoni, non è presenza di qualcosa. Il silenzio è il tempo e lo spazio tra le voci e i rumori che li seguono o li precedono, è un in-between, direbbe Hannah Arendt, è un tempo o uno spazio interstiziale, direbbe Gianni Gasparini, in cui le voci e i suoni si sono spenti o stanno per alzarsi.
Nicoletta Polla-Mattiot mette al servizio dell'analisi del silenzio i suoi studi di retorica, ancora una volta paradossalmente, dal momento che quando il di-scorso scorre (rhéin), silenzio non c'è. Tuttavia il silenzio dell'oratore che sale in cattedra e tace, o quello dell'analista che seduto sulla sua poltroncina non dice nulla, o ancora il silenzio del direttore d'orchestra che solleva la bacchetta mettendo a zittire la platea, sono forme espressive che manifestano potere sull'uditorio, che attende teso e impaziente di udire il suono della voce o degli strumenti. Le sirene, scriveva Kafka, "possiedono un'arma ancora più terribile del canto, il loro silenzio".
È curioso, o meglio significativo, che al tema del silenzio e a quello della voce abbiano atteso di recente pensatrici donne. Nicoletta Polla-Mattiot, appunto, e Adriana Cavarero, con il suo A più voci (Feltrinelli, 2003; cfr. "L'Indice", 2003, n. ???) dedicato alla filosofia della vocalità, come se proprio le donne, che danno voce e lingua materna alle creature, avessero un accesso privilegiato alla voce e al silenzio. Come Momo, la bambina protagonista del romanzo di Michael Ende, che sa usare il suo silenzio per farvi entrare la voce degli amici.
Che l'enigma del linguaggio si celi proprio negli interstizi di silenzio tra le parole? Che la comunicazione sia molto più debitrice del silenzio di quanto crediamo? I greci avevano un dio del silenzio, ci spiega uno degli autori dei saggi raccolti, Massimo Canevacci, e il suo nome valga anche per tutti gli altri; ovviamente si trattava di un dio minore, di quelli che non strepitano e non fanno chiasso, Arpocrate, venuto dall'Egitto come a silenziare la cultura del logos, che aveva fatto del discorso il centro del sapere, del diritto e della politica. Dopo tanta indigestione di elogi della parola, etiche del discorso, filosofie del linguaggio, insomma, fa bene questo riscoprire il silenzio, per chi ancora gode del privilegio di poterlo fare. Non per negare la comunicazione ma per espanderla (con giudizio).
Francesca Rigotti
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