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Il turismo non è la massificazione degradante del viaggio è piuttosto la generalizzazione di un modo di conoscere. È diventato un fenomeno della civilizzazione e come tale va analizzato. Il turista non è un viaggiatore senza qualità, ma un uomo dai molti sguardi, in lui si riassumono l'intelligenza e l'ingenuità, le goffaggini e le incertezze morali di una curiosità collettiva che è incoraggiata dall'evoluzione sociale. Inoltre l'antagonismo di un tempo fra turista e viaggiatore si è spostato in seno alla popolazione vacanziere, all'interno della quale fanno la loro apparizione le "caste". Interessante l'analisi dei «viaggiatori dell'interstizio»: in un momento in cui la complessità si distingue, questi «turisti scaltri» sono i «grandi negoziatori del paradosso» in cerca di intervalli ancora liberi. Sono gli li intenditori del «fuori stagione», gli scopritori di microdeserti come le campagne abbandonate, le reti ignorate, gli esotismi dimenticati. Visitano cimiteri (utili alla comprensione della cultura del luogo), esplorano le fogne di Parigi. Sanno reinventare lo sguardo necessario all' esperienza dello straniamento e al piacere della scoperta. Segreto per definizione, conclude Urbain, un catalogo di questo turismo significherebbe la sua distruzione. Jean-Didier Urbain, «I'idiota in viaggio. Storia e difefesa del turista», Aporie, 1997 pag. 280, 28.000.
Recensioni
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recensione di Gobetti, N., L'Indice 1997, n.10
Jean-Didier Urbain si è assunto con il suo libro un compito nobile, quello di parlare in difesa di una delle figure più bistrattate del nostro immaginario: il turista. Come è stato possibile, si è infatti chiesto l'autore, che il diffondersi delle vacanze per tutti e la democratizzazione del viaggio siano stati accompagnati dal dilagare di un viscerale pregiudizio collettivo nei confronti del turista? Perché proprio ora che siamo diventati tutti turisti abbiamo cominciato a vergognarcene in massa?
Con un certo senso dell'ironia e con indubbio anticonformismo, Urbain decostruisce l'onnipresente modello culturale che al viaggiatore - ancora capace di sperimentare l'autenticità, esplorare territori incontaminati ed entrare in relazione profonda con l'altro - contrappone il turista alla ricerca di simulacri esotici, emozioni standardizzate e contatti superficiali. Eppure è evidente come l'esperienza autentica e profonda, l'avventura e il rischio, lo smarrimento nel diverso e la conoscenza da vicino di altri modi di vita siano divenuti feticci turistici diffusi, desideri di massa, su cui si costruiscono imponenti strategie di marketing volte a proporre sempre nuove formule di viaggi alternativi.
Si è giunti così al paradosso per cui chi parte alla ricerca delle terre vergini, ostinandosi a porsi come obiettivo gli ultimi angoli del pianeta non sfruttati turisticamente, non fa altro che contaminare ciò che desidererebbe incontaminato, aprendo nuove piste per futuri viaggi organizzati, e proprio quando ogni turista ama viversi come un viaggiatore, ogni viaggiatore è costretto a riconoscersi come un turista. Il turista è così divenuto un personaggio schizofrenico, imprigionato in un doppio vincolo: ossessionato dall'idea di evitare i posti turistici, di non farsi catturare dagli specchietti per le allodole, di conoscere davvero i luoghi in cui si reca, di non fare come fanno tutti, si trova in ultima analisi a non poter essere se stesso, a non poter andare là dove in effetti va, a non poter fare ciò che in effetti fa.
Il turista è tormentato dal desiderio di non esserlo, ma pur sempre lo è, e continuamente questa sua imbarazzante identità gli viene ribadita dai nativi, che si ostinano a riconoscerlo come tale, e ancor più dagli altri turisti che incontra, e in cui cerca ansiosamente di non rispecchiarsi. Per non ammettere di essere ciò che è il turista mette allora in atto le più svariate strategie di cammuffamento. Ma, secondo Urbain, si tratta alla fin fine di trucchetti destinati al fallimento. Il turista dovrebbe invece far pace con se stesso, magari per ricominciare ad apprezzare quelle che sono le proprie peculiarità, ad esempio lo sguardo da lontano, il cui valore sta proprio nel non confondersi con quello del nativo, nella capacità di continuare a vedere ciò che l'indigeno non vede più.
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