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Stupendo. Pincio come Pierre Menard, grande rilettore, ma grande scrittore.
non è un capolavoro ma nemmeno questa cosa indegna che si dice negli altri commenti. comunque degno di nota.
Si lasci in pace il più grande scrittore contemporaneo evocandone il nome (Tommaso Pincio suona tra l'altro malissimo), si evitino racconti ridicoli e malamente scritti come questo pessimo romanzo, in cui lo stile latita, la narrazione è pretestuosa, la magia assente. Sulla recensione del sedicente critico si stenda un velo pietoso. Consiglio ai potenziali lettori: alla larga da questa schifezza.
Recensioni
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recensioni di Cortellessa, A. L'Indice del 1999, n. 12
È appena iniziato il 22 giugno del 1969. Ricard De Kaard si trova a Neu-Berlin. Ascolta il rumore della pioggia sul Grossen Glass, l'immane schermo di vetro che sovrasta la città. Quel brusio remoto gli pare obbedire a un ritmo preciso, a una sequenza dotata di senso. Di mestiere De Kaard fa il cacciatore di "stencil", ossia di particolari esseri umani - sosia quasi perfetti di altre persone - entro il cui codice genetico è stata immessa una pulsione distruttiva, omicida. Ora si trova di fronte a un dilemma, perché lo stencil che fra un minuto dovrà ritirare dalla circolazione è la replica della donna che ama, Infrarot. Ovviamente teme di uccidere la donna sbagliata. Poi dovrà partire subito per Roma: il suo prossimo compito è l'eliminazione di un "pre-stencil", cioè di una persona il cui codice genetico risulta perfettamente congruo a una futura "stencilizzazione" (e che dunque conviene "ritirare" preventivamente). Questa persona ha solo sei anni, e il suo nome è Tommaso Pincio. De Kaard ha ucciso troppo. Teme di diventare come un altro cacciatore, Feelin' K. Deep, che a forza di sparare si è trasformato in un sadico serial killer. Ed è toccato proprio a lui, De Kaard, "ritirare" il collega. Ma sempre da lui ha preso l'abitudine di chinarsi sulla propria vittima di turno e immergere nel suo sangue una pallina di materia plastica fotosensibile. Per lanciarla, imbevuta di sangue, contro il muro bianco: lasciando così una traccia colorata.
Il superiore di De Kaard da qualche tempo lo provoca; ha letto un libro scritto da un tale Dick, che immagina una storia alternativa nella quale in Germania il leader del movimento nazista, Hitler, non sia stato ucciso nel 1929. Seguiva una seconda Grande Guerra, con la naturale conclusione della vittoria della Germania e di una sua espansione imperialista in America e nel resto del mondo... Non serve a granché continuare con l'acrobazia di riassumere la trama più complessa della letteratura italiana degli ultimi anni. Basti dire che il piano temporale datato 1969 si intreccia - nell'arco del testo, tutto compresso entro un malinconico Aleph, la "sfinita estensione" del minuto cruciale in cui De Kaard dovrà prendere la sua micidiale decisione - con almeno due altri intrecci, datati rispettivamente al 1928 e al 1957. Piani temporali analogamente deformati, naturalmente, rispetto alla realtà storica. Molti di quelli che hanno durato la fatica di seguirmi fino a questo punto avranno già del resto riconosciuto le trame, intrecciate fra loro, di due classici di Philip K. Dick: l'ucronia esistenzialisteggiante e hippy di The Man in the High Castle (La svastica sul sole, 1962; Nord, 1993) e il neopirandellismo, glamourosamente high tech e gnosticamente patetico, di Do Androids Dream of Electric Sheep? (Cacciatore di androidi, 1968; Nord, 1995 - da cui naturalmente Blade Runner di Ridley Scott, 1982).
Ma tutto il libro di Pincio ribolle di citazioni più o meno evidenti, provenienti in mille rivoli dalle pieghe di una cultura sterminata e minuziosamente divagante: una delle diverse chiavi di lettura del libro, per esempio, consiste nel seguirne gli episodi come mises en scène di celebri opere di Marcel Duchamp, dal Grande Vetro dell'incipit - e inquietante leitmotiv - in poi (o, volendo, come straniante rilettura della filmografia di Fritz Lang...). Anzi, è inesatto dire che il testo sia gremito di citazioni: il testo è fatto, materialmente intessuto, conflato, di citazioni: sino a produrre un effetto di saturazione che naturalmente può infastidire. Ma è un effetto attentamente studiato dall'autore, che estremizza dettami del suo vero modello, dichiarato dalla non meno che radicale scelta pseudonomastica.
In un saggio ancora inedito dall'allusivo titolo Almost but not quite me (verrà pubblicato in un volume su Pynchon curato da Gabriele Frasca e Mattia Carratello), Pincio descrive il senso di totale spaesamento prodotto nel lettore da un'opera estrema qual è Gravity's Rainbow (L'arcobaleno della gravità, 1973; Rizzoli, 1999; cfr. "L'Indice", 1999, n.4), come l'effetto della sostituzione alla trama di un "progressive knotting into", ossia di una graduale, ma alla fine vertiginosa, moltiplicazione degli incastri fra più piani narrativi; e indica il movente di tale decostruzione della trama, previa sua moltiplicazione, nel violento antistoricismo dell'autore. Ma il modello più ravvicinato è il magistrale V. (1961; Bompiani, 1996), echeggiato sin dal titolo (il quale richiama però anche la "sostanza M", il mortale allucinogeno di A Scanner Darkly di Dick: Scrutare nel buio, 1977; Nord, 1979). Qui, come si ricorderà, "Stencil" è un personaggio, e precisamente l'"abile trasformista" che nel terzo capitolo "assume otto personalità diverse"; ma è soprattutto colui che assomiglia a suo padre (è il suo "spettro, o doppio spirituale") ed è in seguito a tale pseudo-identità che trova segnato il proprio destino di detective metafisico. V., e in generale l'opera di Pynchon (così come quella del suo "replicante" romano), possono in effetti rientrare nella costellazione tracciata da un assai bel saggio di Emanuele Trevi, che spazia dagli stilnovisti a Yehoshua, naturalmente non senza passare per l'Hitchcock di Vertigo (Il demone della somiglianza, postfazione all'edizione Fazi di Bruges la morta di Georges Rodenbach, 1995).
E naturalmente M. non si fa sfuggire l'opportunità di problematizzare questo tema, en abîme, entro la propria trama - di farne anzi, a ben vedere, il motore strutturale primo: il "Programma di Determinazione Motivazionale" che fa di una persona uno stencil, infatti, si basa proprio sulla coazione di certuni a rintracciare somiglianze fra le persone, e in generale "l'insensata propensione a leggere segni provocatori nel mondo", ossia ad attribuire un senso a sequenze casuali come il ticchettio della pioggia su un vetro, a cercare un disegno quando si trovano di fronte a poche tracce di colore su una superficie... O magari a vedere - nello spolverarsi casuale delle stelle sul più grande degli schermi, di notte - le costellazioni più favolose. Ma la causa scatenante del processo di stencilizzazione, la "causa morbigena primaria", è la sensazione di ravvisare omofonie - del tipo fra Feelin K. Deep e quel tale scrittore di fantascienza, Philip K. Dick, o fra un certo suo personaggio chiamato Rick Deckard e il protagonista di questa storia, Ricard De Kaard. O magari tra il pre-stencil Pincio, che è poi il nome del colle sopra Villa Borghese, a Roma, e un altro scrittore americano...
L'intenzione di "Pincio" (il quale - sia detto di sfuggita, ché la digressione ci porterebbe troppo lontano - è portatore di intentio auctoris assai ferma, per non dire totalitaria) è precisamente quella di seminare dubbi strutturali, di ingenerare nel suo lettore quello che lui (forse sulle orme del metodo "paranoico-critico" di Salvador Dalì...) chiama uno "stato di lettura paranoica" - raddoppiamento di quello del personaggio pynchoniano, come il Tyrone Slothrop di Gravity's Rainbow. Per cui ogni segno potrebbe rimandare ad altri, ogni presenza fa interrogare su un'assenza, e così via. È al tempo stesso la parodia e la più acuta manifestazione della tendenza della narrativa - particolarmente spiccata in epoca tardomoderna o postmoderna, non è qui il caso di decidere - a configurarsi quale interrogazione iper-ermeneutica (cioè sovrainterpretativa) nei confronti della "realtà" (secondo una linea che, dopo l'archetipo del Castello di Kafka, passa anche per Watt di Beckett...; ma che in realtà, seguendo le orme del Blumenberg della Leggibilità del mondo, si potrebbe far risalire agli albori stessi dell'homo fingens...).
Senza voler svelare il finale di M., non ci sono troppi dubbi che la quête di De Kaard, alla fine, risulterà in qualche modo incoerente. Eppure il libro M. sembra al tempo stesso ironicamente contraddire questo tautologico verdetto: i segni neri (ma in un'edizione a colori sarebbero rosso sangue, come del resto è virata la copertina...) che alla lettera punteggiano la narrazione, infittendosi a ogni frontespizio di capitolo, alla fine compongono un ritratto: naturalmente, l'unica immagine nota di Thomas Pynchon... Chissà che non ci si voglia dire come è proprio cancellandosi, delegando (manieristicamente) la propria identità, che lo scrittore "tardomoderno", paradossalmente, ha trovato il modo di costruirsene una. Confacente quanto produttiva: mentre ci attardiamo su questo suo primo, Tommaso Pincio sta lavorando al suo terzo romanzo, alacre come una formica. Elettrica, naturalmente.
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