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1997
1 gennaio 1997
224 p., ill.
9788885982352

Voce della critica


recensione di Cortellazzo, S., L'Indice 1998, n. 2

C'è un festival europeo dalle caratteristiche particolari, uniche rispetto a qualsiasi altra manifestazione consimile. Una moltitudine di persone si riversa ogni anno ad agosto sulle rive di un lago svizzero, affollando un'ordinata e raccolta cittadina del cantone italiano, dove la lingua imperante è il tedesco. Turisti occasionali, critici dai volti noti ("forzati" o abbonati a ogni festival), giovani locali, cinefili appassionati, registi affermati e sconosciuti, si rifugiano durante le assolate e afose giornate festivaliere in diverse sale al chiuso (tra cui un palazzetto dello sport che contiene 3500 posti), per poi riversarsi alla sera nell'immensa Piazza Grande, un enorme ma armonioso salotto sotto le stelle, in cui - e qui sta la vera particolarità del festival - più di 7000 persone possono assistere, tutte insieme, all'attesa proiezione serale. Un faro di luce illumina, seguito da una cinepresa, porzioni di questa enorme platea che prende posto quando ancora è un po' chiaro, con grande anticipo rispetto all'inizio della proiezione. E lo schermo riflette l'immagine del pubblico che corre per accaparrarsi il posto preferito, quel posto preciso fra i settemila e più, e che è disposto a rimanere "in sala" anche se il tempo è inclemente.
Il Festival di Locarno fa dunque corpo unico con la sua Piazza Grande, come sottolinea il critico svizzero Guglielmo Volonterio nel volume dedicato alla storia della manifestazione, pubblicato in occasione del cinquantenario. Evitando toni celebrativi, il libro compie una radiografia delle diverse fasi storiche attraversate dal festival, sempre o spesso in conflitto con gli interessi corporativi della produzione e distribuzione locale e osteggiato da un'ideologia avversa a tutto ciò che fosse straniero, altro o non conforme all'immagine della società elvetica.
Documenti e verbali portano a galla conflitti d'interesse, rivalità di potere e intromissioni dall'alto che il festival ha dovuto subire nel corso della sua lunga storia. Come sottolinea Pietro Bellasi nell'introduzione al volume di Volonterio, l'appuntamento di Locarno ha creato a suo modo "una faglia, una crepa nell'universo ben temperato e un tempo solidamente monolitico di quella eternità tutta elvetica costituita da una vita quotidiana opposta caparbiamente e ideologicamente alla Storia come follia di 'tutti gli altri'".
Un saggio demitizzante, dunque, questo studio di Volonterio, affiancato, sempre in occasione delle celebrazioni del cinquantenario del festival da un volume di tutt'altro impianto e stile: Cult!, infatti, raccoglie le preferenze espresse da 28 registi made in Usa rispetto a 28 film americani degli ultimi cinquant'anni, passati sotto silenzio o incompresi, ma importanti per la loro carriera, anzi a volte così fondamentali da aver determinato la scelta stessa di diventare cineasti. La selezione proposta compone a suo modo un capitolo per "un'altra storia del cinema americano", volutamente parziale, tendenziosa, provocatoria, quell'"altra storia" raccontata, per l'appunto, dalla retrospettiva locarnese della scorsa estate, composta dai 28 cults prescelti.
Si parte dalle preferenze di Woody Allen e si chiude con John Woo, passando attraverso nomi di punta quali Robert Altman, Kathryn Bigelow, Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Clint Eastwood, David Lynch, Martin Scorsese, Steven Spielberg. Nelle pagine del volume curato da Bill Krohn sono raccolte le motivazioni addotte dai registi interpellati rispetto alle loro "scelte filmiche elettive", nonché una scheda critica sull'opera selezionata. Le dichiarazioni dei cineasti interpellati a volte si traducono in brevi annotazioni e spunti (come nel caso di Woody Allen che opta per La collina del disonore di Sidney Lumet, utilizzando poche frasi entusiastiche - "uno dei migliori film americani (...) un'esperienza immediata e totale"), altre in veri e propri saggi critici (com'è nel caso di Robert Kramer, che rivolge la sua attenzione a Killer of Sheep di Charles Burnett o di Peter Bogdanovich, che non ha dubbi nel preferire Ero uno sposo di guerra di Howard Hawks).
Le opzioni e i testi che le accompagnano si rivelano singolari quanto i registi interpellati. Joe Dante e Oliver Stone si battono per la riabilitazione di John Farrow e Robert Wise; Jim Jarmush e John Woo optano per film di genere, rivisitati in modo estremamente personale da Nicholas Ray (La donna del bandito) e Sam Peckimpah (Voglio la testa di Garcia); Abel Ferrara punta l'attenzione su Zelig, mentre John Carpenter si rivolge al Falstaff di Orson Welles; Kathryn Bigelow confessa di aver deciso di diventare regista dopo la visione di Il mucchio selvaggio di Peckinpah, mentre Gus Van Sant parla dell'influenza esercitata su di lui da Gente comune di Robert Redford.
Non si tratta probabilmente di opere destinate a essere consegnate alla storia del cinema tout court, sottolinea nella presentazione al volume il direttore del Festival di Locarno, Marco Müller, ma senza dubbio "sono proprio questi film che in qualche modo esprimono qualcosa di essenziale del cinema: opere magari in apparenza vulnerabili ma comunque in grado di rivelare una virtualità che si fa emozione per lo spettatore, alla prima o a ogni visione successiva".

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