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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 1996
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Molto arduo da leggere, forse troppo polemista.
Recensioni
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È stato finalmente ripubblicato Com'è grande la città, un'opera emblematica nell'offerta letteraria dell'ultimo ventennio. Con la prima edizione apparsa nel 1996, Bruno Pischedda aveva suscitato una vivace discussione pubblicistica, perché metteva i piedi nel piatto riguardo al rapporto tra ceti intellettuali e cultura di massa. Gli interlocutori polemici si collocavano anzitutto sul fronte del pensiero democratico-progressista, ma l'esemplarità della parabola romanzesca raccontata andava e va ben oltre l'ambito delle dispute intellettuali. L'esito delle recenti elezioni, se mai ce ne fosse bisogno, attesta la centralità della questione che Pischedda prende per le corna. Com'è grande la città compendia in forma autobiografica le vicende collettive della modernità italiana. La copertina dell'edizione Shake dichiara che si tratta di un romanzo. Se romanzo ha da essere considerato, come conviene, è romanzo alquanto sperimentale, senza che ciò turbi minimamente la sua piena fluenza e godibilità narrativa: perché l'affabulazione sorgiva vi convive accanto a pagine di elevato tenore concettuale, e la conseguente miscela saggistico-romanzesca si articola secondo le cadenze frammentarie dell'annotazione diaristica.
La sperimentazione di Pischedda, in effetti, si esercita primariamente sugli assetti di genere: l'urgenza e la contingenza del diario si riflettono nell'andamento rapsodico della scrittura, tra rievocazione autobiografica rivolta al vissuto giovanile e saggismo polemico alimentato dalla cronaca politica e dal dibattito culturale odierno. A compattare le fila della scrittura è la soggettività concreta dell'io narrante, la cui esperienza in prima persona si offre come campo di verifica tanto dei ragionamenti intellettuali quanto dei comportamenti di costume. Il raffronto tra l'ieri e l'oggi, commisurato alle opportunità di cui ha beneficiato il narratore-protagonista, acquista un'evidenza più persuasiva. L'autobiografia diaristica assume così una valenza singolarmente collettiva: lungi dal configurarsi come un'individualità scultorea e ammirevole, l'io pischeddiano emerge, senza spocchia, dal tessuto delle amicizie e delle frequentazioni con cui ha condiviso le stesse vicende di crescita. Non è l'avventura di un io a essere raccontata, quanto quella di un noi, sullo sfondo di una comunità paesana prossima ma non confusa con la metropoli milanese. Il narratore prende la parola in veste di intellettuale adulto, intento a misurare sulla propria pelle le circostanze storiche ed esistenziali che gli hanno permesso di diventare quello che è, senza disconoscere quello che era. Viene allora a delinearsi un vero e proprio itinerario di formazione, attraverso i ricordi suscitati dagli incontri occasionali del protagonista con i propri compagni di strada e gli esiti riscontrati nell'attualità politica e culturale.
Nella provincia lombarda il disagio della civiltà e soprattutto quello dell'inciviltà si manifestano nei modi più bizzarri, tra preti doncamilleschi, vicine di casa ammattite, delinquenti votati all'autodistruzione creativa, adolescenti ai limiti della sociopatia. Le avventure cameratesche improntate a un sadismo iperbolico si intrecciano alle avventure erotiche con una femminilità evasiva o struggente, mentre la scuola e la politica costituiscono palestre di agonismo vitale. L'andamento rapsodico del diario consente di stringere in unità la molteplicità di figure rievocate ed episodi giustapposti, esaltando le mille sfaccettature dell'universo paesano alle soglie della grande città industriale. La coesione organica dell'opera deriva proprio dalla compiutezza dell'itinerario pischeddiano: fatto di divertimento scapestrato e grottesco, ma anche di lutti numerosi. L'approdo a esiti di piena maturità non reca ombre di nostalgia, ma poggia sulla consapevolezza delle perdite, sulla fatica del mutamento: oltre alle matte risate, sono tanti i destini sfumati che hanno incrociato quello del protagonista.
Ecco: lutti, perdite, figure di merda e scapestrataggini portentose acquisiscono un senso ulteriore proprio perché incanalati entro gli istituti democratici della civiltà di massa. Le medesime condizioni che avrebbero potuto produrre uno dei tanti sbandati provinciales del moderno, nel caso dell'io pischeddiano mettono capo a risultati più buoni che cattivi: tutt'altro che fallimentari o rinnegati, nonostante la salubre carica di autoironia. Sono tanti i caduti e i dispersi ai margini della grande città, ma sono tante e più le occasioni che il mondo moderno offre a quanti non ne hanno mai avute prima. La questione è proprio questa: a rimeditare sulla propria storia, che riconosce come storia di tutti, è né più né meno uno di quei provinciales, a cui la civiltà di massa democratica ha consentito di mettere a frutto le proprie doti native e la propria irrequietudine. È solo entro i confini della modernità democratica, grazie ai mezzi della civiltà di massa (non ultimo la televisione), che il teppistello di Cesate ha potuto affrancarsi dal conformismo dei retaggi patriarcali e dalla coazione del cameratismo paesano. Com'è grande la città ammonisce a tenerne conto: soprattutto se si vuole porre rimedio al processo monopolistico di convergenza tra potere politico e potere televisivo. Giuliano Cenati
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