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Continua la benemerita traduzione di testi di Arno Schmidt (1914-1979), autore complesso e funambolico, sperimentatore e alchimista della lingua e del senso, rimasto per decenni interdetto al nostro pubblico salvo sporadici tentativi, fino alle recenti, brillanti traduzioni di Domenico Pinto pubblicate da Lavieri. Dopo Dalla vita di un fauno (2006), Brand's Haide (2007) e Ateo?: Altroché! (2007), ecco ora a Specchi neri (Schwarze Spiegel, 1951), breve romanzo contemporaneo a Brand's Haide di cui condivide la costruzione franta, a sancire, secondo la progettazione teorica schmidtiana, l'irriducibilità dei vuoti di memoria e di percezione alla linearità del racconto. Ma diverso è qui il meccanismo di rappresentazione di quegli stessi scenari disseccati e devastati del secondo dopoguerra: la quinta di una Germania distrutta è traslata in un apocalittico futuro che amplifica negli esiti di un conflitto nucleare la desolazione del presente trasformandola paradossalmente in un idillio. Gli orrori atomici costituiscono infatti la tabula rasa necessaria a una riedificazione utopica, sia pure di un'utopia à la Arno Schmidt, centrata sull'io ("Non vedevo esseri umani da cinque anni, e non è che mi spiacesse") e sull'assolutizzazione della letteratura che si sostituisce a una vita deprivata di senso. Siamo all'interno della fantascienza, quindi, e l'accostamento con Philip K. Dick, con cui Schmidt condivide l'interesse per le dottrine gnostiche paleocristiane, non è azzardato. Penso in particolare a Deus Irae, il romanzo scritto in collaborazione con Roger Zelazny. Con quel testo Specchi neri ha in comune la dimensione itinerante di quest in un mondo in sfacelo, riduzione di una condizione umana che ha smarrito ogni bussola e che può mantenersi salda solo a patto di dimenticare una progettualità impossibile, rimpiazzandola con la casualità frammentaria e puntiforme della percezione istantanea.
La vicenda del protagonista-narratore è la registrazione solitaria di una sopravvivenza riscattata solo dalla letteratura, dai libri che rintraccia nel suo vagabondare e soprattutto porta dentro di sé, e in cui la presenza di un'estranea - una donna che, come lui sopravvissuta, viene dall'est per poi scomparire nel nulla è percepita come un'intrusione, un episodio a margine di una vita che, come in molta narrativa post-catastrofica, sublima la forzata solitudine in una condizione di onnipotenza solipsistica "Se tutto filava liscio (?) potevo vagare ancora a lungo per la terra deserta di uomini: non avevo bisogno di Nessuno!". Dove la maiuscola di "Nessuno" rimanda a Ulisse/Utys, alla cui eroica e solitaria impresa il protagonista-narratore ripetutamente si richiama in un autocelebrativo parallelo.
Verso la fantascienza, del resto, Schmidt ritornerà negli anni successivi, fino alle vette di Die Gelehrtenrepublik (1957) e Kaff, auch Mare Crisium (1961), contaminandola tuttavia con la grande tradizione narrativa della letteratura universale e liquidandone di fatto la dimensione di genere. Alla fantascienza rimanda anche il violentissimo pamphletsotto forma di "lettera" che apre la seconda parte di Specchi neri, vero e proprio centro tematico dell'intera novella, un'appassionata difesa della cultura ellenica rispetto a chi vorrebbe destituire il mondo classico del suo ruolo fondante per la nostra civiltà, redatta come risposta a un articolo di un certo professor George R. Stewart, uscito nel 1948 sul "Reader's Digest". Costui era l'autore di uno dei romanzi più famosi del filone apocalittico, Earth Abides (1949), che mette in scena le sorti dell'"ultimo americano" sopravvissuto a una spaventosa catastrofe globale, così come Specchi neri si impernia su quelle dell'"ultimo tedesco". A ben vedere, la novella è una risposta al romanzo di Stewart: il superstite di Schmidt non si arrovella, novello Robinson, a ricostruire faticosamente le vestigia della civiltà tramontata, ma si lascia andare quasi con voluttà alle sue macerie, a un destino in cui tornano in primo piano, proprio al modo dei greci antichi, l'osservazione del mondo, la riflessione, la filosofia, senza ricadere nei vincoli della necessità e dello sfruttamento che hanno già segnato il destino dell'umanità (di quell'umanità che la logica da homo faber di Stewart così ben rappresenta).
Passa anche attraverso la fantascienza, dunque, il tentativo di Schmidt di mescolare le carte: nel suo infinito amore per le parole ("Parole, sola cosa che io conosca"), l'autore tedesco compie l'azzardo di inglobarle tutte nel proprio abbraccio, certo rischiando, nel suo infinito gioco di rimandi ad altri libri, ad altre storie, di prendere congedo dalla realtà in una vertiginosa prospettiva di specchi, in cui l'immagine reale si deforma sempre di più, fino a corrispondere solo ai suoi fantasmi. In Specchi neri il processo è appena agli inizi, il piacere della narrazione e dell'affabulazione ancora genera una storia, per la quale l'ampio apparato di note fornito dal curatore costituisce un ausilio utile ma non necessario. Nello Schmidt degli ultimi anni, invece, costruzioni auto- e infrareferenziali formeranno un complesso inespugnabile al senso cui sarà impossibile accedere da profani. Le note, allora, prenderanno il predominio sul testo, a segnare il sostanziale fallimento della sua tarda sperimentazione.
Alessandro Fambrini
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