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Descrizione


Una mitica città siciliana, un piccolo principino e le sue cento madri, opulente e inafferrabili, carnali e misteriose: in un'atmosfera surreale e soffocante un bambino cresce segnato da questa presenza femminile molteplice e variegata che tutto avvolge e tutto possiede. Ma un senso di colpa, la premonizione di un atroce delitto si insinuano nel fragile equilibrio di questo grande harem e del suo principino. Come potrà il bambino ormai cresciuto liberarsi da questa ovattata prigione? Sarà possibile distaccarsi dalle cento madri senza uccidere qualcosa di sé e di loro?
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Dettagli

2009
1 gennaio 2009
144 p., Brossura
9788889325728

Voce della critica

Non nuovo all'esperienza narrativa (Un bellunese in Patagonia, Stampa Alternativa, 2005), Lentini sperimenta con Cento madri una forma assai moderna di romanzo, una prova di congedo dalla norme tradizionali del genere, una prova in cui l'autore sembra perseguire gli stessi fini della propria attività di artista visivo: parole che si fanno materia, e che in quella materia trattengono una robusta carica espressiva. La forza principale da cui si è lasciato possedere è infatti la scrittura, pura e semplice, che a ogni riga prevale sul contenuto.
Il libro è traversato da un'improbabile storia: quella di un bambino (ragazzino, principino, ma anche mostriciattolo) che subisce le cento madri, cioè la vita. Ma la scrittura è ciò che prevale a ogni passo: una scrittura messa in gioco con uno stile assai personale, e giocata fino a quel gesto conclusivo che contiene il senso dell'intero. Singolare versione del detto "nella fine c'è l'inizio" (che scorrazza nella cultura tedesca perennemente turbata dalle "origini"), il capitolo 68 di Cento madri si snoda con un sapore di terra italica: "Andando imparo dove devo andare". Si tratta di una dichiarazione ad angoli retti del proprio sperimentalismo. Infatti, sperimentare equivale proprio a imboccare un tragitto e farsene guidare. Strada facendo impareremo dove dirigerci: sarà lo stile medesimo che stiamo sperimentando a prenderci per mano e condurci proprio là dove dobbiamo andare. La chiusa è insomma il miglior manifesto teorico del romanzo. Un manifesto di quella quiete silenziosa di cui il libro è pervaso. Anche nella dinamica delle scene più fulminanti si avverte la quiete assolata del Meridione, la carne abitata dal tormento mite della rassegnazione (ma sempre tormento). Una quiete doverosamente reclamata dal tema della madre, anzi delle cento madri: le cento facce emaciate e rugose della terra, della genesi.
Alla fine del romanzo un quesito sporge spontaneo: non sarà per caso un'autobiografia? Il gesto finale di chi uccide non si solleva infatti tra "spade e cavalli bianchi": è uno sportello di treno che sbatte, è la scena di un commiato, forse la fugace, laconica scena di quell'addio alle cento madri che ha infine deciso il destino dell'autore. Resta lo stupore per come avrà fatto a scrivere così: un libro minuscolo e ben cadenzato giunge a conclusione lasciando sul palato il sapore di aver preso parte allo spettacolo, inquieto ma garbato, della scrittura.
Antonio Castronuovo

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