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Jack London si conferma un narratore formidabile. Due versioni per la stessa storia ambientata nel gelido Klondike, raccontate in modo coinvolgente e strepitoso.
Un racconto perfetto in pochissime pagine, una descrizione mirabile della natura selvaggia, un congegno narrativo che tiene inchiodati alla pagina. Molteplici i significati che possiamo dargli, per me, quelli di assecondare e non sfidare la natura, ascoltare e imparare da chi ha più esperienza di noi, cooperare col gruppo e non essere troppo individualisti.
Maestro del racconto, un grande della letteratura americana dal quale attingeranno poi in tanti. Produzione enorme se si pensa alla breve vita di London. Interessante il commento e la possibilità di comparare le due versioni del racconto. Per la stessa cifra si va al cinema a vedere della cose immonde.
Recensioni
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La stella di Jack London, nel tempo, non si è mai offuscata. A più riprese, anche in Italia, editori importanti o di nicchia lo hanno ritradotto, rieditato, riproposto in forme diverse. Lettura formativa, propedeutica,per adolescenti, esempio irriducibile dell'anticanone americano, archetipo dello scrittore on the road: i temi e gli ambienti come la scrittura di Jack London sono un laboratorio inestinguibile di evocazioni e spunti anche sulla modernità. L'editore Mattioli 1885 aveva già stampato una bella edizione di La crociera dello Snark, il racconto del tentativo, iniziato nel 1907 e mai concluso, di fare il giro del modo toccando i luoghi di Stevenson e di Melville a bordo di un ketch lungo 16 metri, e ora fa tradurre ex novo il notissimo To Build a Fire nella sua versione più tarda, quella che London fece pubblicare nella raccolta Lost Face.
Non è il caso di perdersi in sofisticate questioni filologiche, ma certamente il racconto che leggiamo in questa nuova veste rappresenta l'estremizzazione dei rapporti tra uomo e natura, tra uomo e cane, tra uomo e morte che sono contenuti, a un grado più basso, nella versione del celebre racconto sempre circolata (quella pubblicata in I racconti dello Yukon e dei mari del Sud, Mondadori, 2003). Qui, infatti, un uomo non meglio identificato (mentre nel 1902 e poi nel 1903 il protagonista aveva un nome e un cognome), forse un cercatore d'oro, decide, nonostante le temperature siano scese al di sotto dei quaranta gradi sotto lo zero, di attraversare i boschi sugli argini dello Yukon, il gelido fiume che scorre nei territori del Klondike (un altro dei luoghi mitici dove Jack London peregrinò negli della sua giovinezza). L'esito naturale sarà la morte per congelamento, ma prima l'uomo lotterà strenuamente contro gli attacchi del gelo. Stremato e sorpreso dal freddo sempre più intenso, durante una sosta cercherà almeno di ingollare una galletta. Ma la bocca e l'intero viso sono congelati, non può neppure muovere le labbra. Allora, nonostante le mani siano a loro volte immobilizzate, proverà appunto ad accendere un fuoco. Ma quali e quante saranno le difficoltà. Pochi i rami intorno e umidi i fiammiferi, alla fine un tenue crepitio darà vita al falò di fortuna. Breve sarà però la vittoria, perché inavvertitamente l'uomo farà cadere dai rami piegati un cumulo di neve che, in un attimo, copre fuoco, cane e uomo. Ancora qualche disperato tentativo e all'uomo non resta che un'unica via d'uscita: uccidere il cane per affondare nelle sue viscere calde le mani e finalmente riuscire a muoverle.
Questo è il momento di maggiore intensità del racconto, il momento in cui s'inverte l'ordine naturale o forse quello in cui la legge di natura prende il totale sopravvento (anche Jack London ha le sue ambiguità): il cane avverte un cambiamento nel padrone e scappa lontano decretandone la morte. "Qualcosa l'aveva sorpreso e la sua natura sospettosa avvertiva il pericolo, non sapeva di che tipo, ma a suo modo, in qualche zona del cervello, sviluppò diffidenza nei confronti dell'uomo. Al suono della voce abbassò le orecchie e l'istinto gli fece intensificare il movimento delle zampe anteriori. Il cane non si avvicinò, ma l'uomo si mise a quattro zampe e strisciò verso l'animale. Quell'insolita postura eccitò il sospetto nell'animale, che arretrò di sghembo, evidentemente allarmato".
Altro che Eden perduto, altro che riposizionamento dell'essere umano nella catena evolutiva: il conflitto è più che mai dichiarato, aperto, insanabile. Il cane a cui London ha affidato, in molti suoi racconti e romanzi, un ruolo di testimone, di osservatore neutro dell'umano agire, qui sembra andare oltre il talento istintuale. Avverte, prima dell'uomo, l'odore della morte, prima dell'uomo sa che l'unica via di scampo è altrove, con altri uomini, quelli che lui solo raggiungerà in un campo non lontano, e non con quell'esemplare destinato al fallimento. La traduzione è molto ben fatta, segue l'andamento strappato del racconto, non evita le ripetizioni, e insiste sull'inesorabile andamento negativo. E al lettore insegna, senza la coda di tante sciocchezze, che cosa vuol dire il concetto di wilderness.
Camilla Valletti
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