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Siamo di fronte a un romanzo di idee, a un romanzo di linguaggi. Senza mai esaurirsi, proprio come l’opera di Duchamp. La trama de “Lo zio Demostene” è su più livelli, lo sottolineo e di più. Attraverso una lingua che stordisce, ma la necessità precipua per comunicare con il lettore è l’eccesso, lo stordimento, ANTONIO MORESCO ci introduce nel Caos, nei suoi Canti danteschi-antifascisti, senza però mai esaurirsi, che penetra nella coscienza del lettore per frastornarlo proprio come se fosse dentro alla storia personale di ANTONIO MORESCO. Siamo di fronte alla Letteratura che non prende su di sé etichette di alcuna sorta. Il linguaggio di ANTONIO MORESCO è tarocco fino all’eccesso: come non essere totalmente affascinati dall’Opera di ANTONIO MORESCO? ANTONIO MORESCO con “Lo zio Demostene” consegna alla Letteratura una Opera assolutamente perfetta, che a ogni nuova lettura si spiega al lettore, il quale però non capisce, perché non siamo più abituati alla Letteratura.
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Un autore che si confessa, ha detto Ruggero Guarini a un convegno su Giuseppe Berto svoltosi lo scorso settembre a Roma, è incredibilmente impudico. Da sant'Agostino a Montaigne, attraverso lo sfacciatissimo Rousseau fino ai contemporanei, è tutto un fiorire di scrittori narcisisti poco discreti. Guarini contrapponeva brutalmente (malamente) "l'ultimo borghese", Berto, allo scandaloso Pasolini, che avrebbe avuto invece la smania di mostrare le sue viscere, la sua coratella estroflessa, fino all'eccesso di voler raccontare e catalogare una per una le numerose fellazioni di Petrolio .
Questa antipasolinità (deprecabile) sembrerebbe giusta proprio per evocare e contrario il pasolinismo di Moresco, che è cultore delle viscere in quanto radicalmente concentrato nell'entrare dentro la materia, aprirla e sbuzzarla, per offrire una letteratura non riconciliata ed espressionista fino al metafisico. L'ultimo prodotto dell'autore dei Canti del caos è un libro di famiglia, con dovizia di fotografie e informazioni su avi, nonni, genitori, zii e zie. Un libro familiare in cui i dati sono ricostruiti con cura filologica sulla base di documenti e di ricordi, con la volontà di non inventare nulla e di non elaborare troppo la materia. In realtà lo zio Demostene del titolo, anarchico e randagio più che mai, non è il protagonista della saga familiare, bensì un primus inter pares . Almeno pari in importanza, ad esempio, è il nonno scrittore autodidatta e ingenuo grafomane ("Compilava giorno dopo giorno voluminosi quaderni"), oppure il padre scanzonato e bramato dalle femmine, che si fa fotografare a sedere nudo su un pitale mentre suona la chitarra. Insomma, Zio Demostene non è il ritratto di un unico personaggio a metà fra il Dino Campana e il lunatico cavazzoniano, come ci si potrebbe attendere, ma è un vero e proprio album familiare compilato con acribia e scrupolo di ricerca, e senza manipolazione narrativa.
Diciamo che qui Moresco si dilacca, e usando questo verbo desueto vogliamo proprio riferirci al canto dantesco degli scismatici, certamente caro a ogni espressivista, in cui Maometto invita il pellegrino infernale a guardare bene "com'io mi dilacco". Dante ficca i suoi occhi in quel dannato che si spalanca il ventre con le mani e mostra fuori le trippe disperate: "La corata pareva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia" ( Inferno xxviii, 27-27). Così Moresco va ben oltre il genere della confessione, del cuore messo a nudo, e mette a nudo altre interiora, squinternando tutto il suo corpo genealogico, in cui si pone come ultima escrescenza, sconvolta randagia eslege come già gli avi. Gli discende cioè per i rami la non conformità con l'ordine delle cose e del mondo, l'estraneità a ogni benessere e quiete, la spasimosa rabbiosità dei Moresco. Il suo sguardo ansioso, esigente, anima la foto identificativa della carta d'identità a ventitre anni, sulla quarta del libro, in evidente rassomiglianza con l'immagine dello zio Demostene in copertina. A voler dire: io vengo da lì, da un anarchico comunista antifascista fuoruscito esasperato diffidato politico esiliato dilaccato morto.
Questo libro di famiglia, insomma, peraltro di tradizione già medievale, culmina e trionfa sconciamente, quindi legittimamente, nell'io empirico dello scrittore, anzi nell'enormità del suo corpo di nascente dalla pancia dilaccata della mamma: "Lei ha avuto uno sventramento per la grossezza della mia testa, del mio crapone pieno anche allora di melma cerebrale e di deliri e di sogni". Il testone di Antonio già rigonfio di fantasia materica, di feci e illuminazioni, pronto per la futura colata letteraria, quando l'attivismo politico estremista si sarà quietato. L'albero genealogico dei vagabondi e degli inquieti Moresco non può che rimandare al fusto principale dell'io ipertrofico, un io - quello dello scrittore - che non può essere discreto, non può essere borghese, se vuole essere quello che è, un distruttore ferito, un vitalista vitale e mortuario.
Pensiamo, quasi sorridendo, a quanta distanza c'è fra l'album fotografico lutulento di Moresco e i libri in cui Javier Marías ci parla del padre o del fratellino, sempre cum figuris , ad esempio in Nera schiena del tempo o nell'ultimo Il tuo volto domani. 1. Febbre e lancia . Incommensurabile questa distanza: da una parte uno scrittore alto-borghese (con un padre famoso), raffinato, che esordisce giovinetto, un madrileno dotato di una prosa analitica interminabile, tra Proust, James e la pensosità barocca ispanica, dall'altro un randagio furibondo che pubblica il primo libro a quarantasei anni, con tutta l'acredine di chi ha subito ingiusti rifiuti dall'editoria distratta e colpevole, pieno di un senso di tradimento e di una poetica esasperatamente massimalista e fisica. Forse li unisce il pensiero ossessivo della morte e l'appartenere a una stessa generazione che vive la fine della modernità come un trionfo spaventoso ed eccitante per ogni narcisismo d'artista. E se li separa una diversa fortuna biografica, forse ancora li lega una percezione della letteratura come spazio infinito percorribile senza nessun salvagente, o ammazzagente, di tipo comunitario.
C'è solo da dire, in conclusione, che forse la scelta di non elaborare narrativamente il proprio album genealogico non premia fino in fondo. Nel senso che l'insistenza di Moresco sul fatto che la sua è una famiglia "strana", di "strani", sarebbe stata forse più accoglibile dal lettore se l'autore avesse trasformato i fatti e i personaggi della propria epopea appunto in una epopea, in un romanzo, o anche solo in un racconto, ovvero in qualcosa di artisticamente individuo, unico, organico, vivente (puntualizzerebbe bene De Sanctis). Ma per Moresco, verrebbe da dire, basta Moresco. Almeno in questo caso.
E sarà comunque da rispettare anche tale opzione, sfacciata e spaccona, magari demenziale e scombinata, ma almeno non discreta e pudica come vorrebbe chi crede di galateizzare la letteratura.
Roberto Gigliucci
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