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L' eresia di Pasolini. L'avanguardia della tradizione dopo Leopardi - Gianni D'Elia - copertina
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L' eresia di Pasolini. L'avanguardia della tradizione dopo Leopardi - Gianni D'Elia - copertina

Descrizione


Profeta indifeso, disilluso e incivile, perché quella era l'unica forma possibile di coscienza civile, Pasolini si è esibito come testimone autentico dell'epoca in cui viveva. Questo scrittore scomodo si può rimuovere, svilire, calunniare. Gianni D'Elia fa rivivere invece Pasolini nella sua altissima integrità: il poeta dialettale e "poematico" in lingua, il saggista, il narratore e l'autore del "teatro di parola" e del "cinema di realtà". Gli ampi reperti di questa rilettura "totale" mirano soprattutto a distruggere l'opera di restaurazione o epurazione in atto. Si assiste così a una rivisitazione appassionata di testi e idee, accompagnata da una puntuale iconografia del "nini muàrt".
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Dettagli

2005
1 giugno 2005
176 p., Brossura
9788889416280

Valutazioni e recensioni

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Recensioni: 4/5
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S.A.
Recensioni: 3/5

Un libro che ha il pregio di difendere con sottilissime e acutissime riflessioni il pensiero di Pasolini dalle pesanti critiche che gli furono rivolte e che oggi ci fanno un po' sorridere, tanto suonano false rispetto alla verità delle parole di Pasolini. La scrittura però è molto pesante, troppo. Si tratta di una lettura decisamente poco scorrevole, assolutamente sconsigliato per avvicinarsi a Pasolini.

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emiliano ventura
Recensioni: 5/5

Uno dei libri migliori su pasolini, questo percorso sul pensiero eretico parte da lontano ma è attualissimo. da non poerdere

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Recensioni

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Voce della critica

Un saggio agguerrito e maturo che viene da lontano: dal primo numero della rivista "Lengua", che D'Elia fondò nel 1982 rifacendosi a "Officina" come riferimento ideale. D'Elia riprende il motivo centrale della "contraddizione" e dell'"ossimoro": figura retorica secondo la quale si affermano due contrari. Ossimoro pasoliniano paradigmatico è il celebre verso dedicato a Roma: "stupenda e misera città". Quel motivo è stato teorizzato per la prima volta in un fondamentale saggio di Fortini del 1960 sul "Menabò", e ha segnato da allora l'intera riflessione critica su Pasolini. Ebbene, ho maturato una certa insoddisfazione per la categoria della "contraddizione", che anch'io ho sempre usato: un'insoddisfazione, perciò, anzitutto autocritica. La categoria della "contraddizione" infatti mi sembra oggi usurata, indebolita, rischia di diventare una chiave di lettura troppo acquisita, o una caratteristica troppo generalizzata. Ma Fortini parla anche di "antitesi" e di "opposizione", che mi sembrano categorie più forti, più drastiche, più pasoliniane.
Un ossimoro è anche il sottotitolo del saggio di D'Elia, L'avanguardia della tradizione . Vengono in mente subito i versi del poemetto Le poesie mondane (1962) nella raccolta Poesia in forma di rosa : dove Pasolini si definisce "più moderno di ogni moderno" proprio per il suo amore "nella tradizione" e nelle inestimabili e imprescindibili ricchezze e potenzialità che essa reca in sé. Ma qui D'Elia riapre il discorso sui rapporti tra Pasolini e Leopardi. Il Leopardi della "poesia sentimentale", che si fonda sulla filosofia, sull'esperienza, sulla cognizione dell'uomo e delle cose, eccetera.
Un accostamento e un percorso convincenti e producenti, che si possono integrare con un diverso percorso, fondato sulla consapevolezza della forte, specifica e squisitamente novecentesca pregnanza o ambiguità semantica di molti termini pasoliniani. Basta pensare ai significati di "cristiano" (come appartenenza a una fede religiosa o come appartenenza alla civiltà umana o altro), di "paterno stato" (come sinonimo di condizione filiale o di condizione borghese, stato naturale e stato sociale o altro ancora), e di "Nuova Preistoria", che richiederebbe un lungo discorso.
Anche il "sentimento" e la "filosofia" riferiti a Pasolini, possono sottintendere molti significati: il "sentimento" come carica affettiva, irrazionalità, passione viscerale (e in definitiva attaccamento alla "vita" intesa nella sua fisicità e religiosità), e la "filosofia" come ideologia, coscienza critica, tensione razionale (e in definitiva partecipazione alla storia). Due momenti in antitesi conflittuale che sono inestricabili quanto fecondi, dentro la poesia di Pasolini. Questo percorso comunque converge alla fine con quello di D'Elia, che spiega come tutta la extraletterarietà pasoliniana sia parte integrante della sua poesia, e riprende l'idea officinesca di una poesia impoetica, impura. Una poesia che assume il conflitto passione-ideologia come fatto poetico esso stesso. In breve: la poesia come vissuto e il vissuto come poesia. O come dice D'Elia, "poesia come altro da poesia. Sperimento come rinnovato giudizio".
Questa è soprattutto la fase delle Ceneri di Gramsci negli anni cinquanta, dove il conflitto vita-storia rompe anche la struttura metrico-stilistica dei poemetti. Il passaggio alla fase successiva, quella degli anni sessanta-settanta, è segnato invece dal motivo sempre più dominante della "vita", e dalla progressiva irreversibile caduta dell'altro termine del conflitto, "la Storia", d'ora in poi rifiutata come nemica. Anche qui si può tracciare un percorso fondato sulla pregnanza e sull'ambiguità semantica della "vita" nell'opera di Pasolini. Eccone un piccolo campionario: "la vita" come fisicità naturale non consumabile (il sole, l'erba, la giovinezza) divorata ferocemente, disperatamente, illimitatamente, fino a diventare una droga e un vizio (Pasolini la paragona addirittura alla cocaina, in un'autobiografia del 1960); "la vita" come blasfema eresia evangelico-viscerale e come sacralità barbarica e primordiale, incarnata volta a volta nei giovani corpi dei fanciulli friulani, dei "ragazzi di vita" romani e degli africani terzomondisti (nella poesia e narrativa dagli anni quaranta ai sessanta); e "la vita" come valore assoluto rintracciato nella rivisitazione dei miti arcaici, da Edipo re a Medea (1967-70).
Ma "la vita" pasoliniana viene negata e minacciata in ogni sua manifestazione, dal contesto sociale e storico: la chiesa istituzionale repressiva, o lo stato borghese centralistico, o il mondo industrializzato, capitalistico, eurocentrico. Al tempo stesso però "la vita" resiste nella sua irriducibile immutabilità, che non può essere distrutta ma soltanto sepolta, come accade alla serva nel finale di Teorema libro (1968). Perché, dice Pasolini, sempre "la vita" riemerge e si reincarna in nuovi imprevedibili portatori.
C'è dunque una potente tensione corporale, viscerale, "vitale", che attraversa l'intera produzione di Pasolini. In particolare, è proprio attraverso la compenetrazione con la vita e attraverso il rifiuto della storia, che il Pasolini "corsaro" manifesta una straordinaria capacità di disvelamento, critica, premonizione, accusa, e conduce una lettura per così dire anomala, strabica, deviata, e tanto più acuta, antischematica, anticipatrice dei profondi processi di trasformazione e dei guasti del capitalismo maturo. Una lettura che poteva apparire inattuale allora, mentre risulta attuale oggi, di fronte alla degenerazione politica, morale, culturale di tanta parte della società e della classe dirigente. Scrive il Pasolini corsaro: "io vivo (...) tale cataclisma (...) nel mio corpo . (...) È da questa esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea , che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici". La sua tensione intrinsecamente regressiva, rivolta al passato, smaschera la falsa modernità, "lo Sviluppo senza Progresso". È qui in fondo la vera "diversità", il vero "scandalo" di Pasolini.
Questo percorso converge ancora una volta con le pagine di D'Elia sull'acutezza degli Scritti corsari , che si manifesta anche (come D'Elia opportunamente ricorda) in Teorema libro e in Trasumanar e organizzar a proposito del fallimento dei movimenti giovanili di contestazione, e in Petrolio a proposito della rete di oscure alleanze politico-economiche, all'interno delle quali potrebbe ancora nascondersi il mandante della sua uccisione. Una tesi dissepolta da D'Elia, che conferma la validità della battuta: niente più inedito dell'edito.
Pasolini trae la forza delle sue analisi e requisitorie da quella che D'Elia chiama la sua "esagerazione": che è poi "l'eccesso" da Pasolini stesso dichiarato più volte quasi in modo programmatico. Ricordiamo bene gli interventi folgoranti, provocatori, eccessivi , del Pasolini corsaro, che colpiscono bersagli lucidamente motivati o costringono comunque a riflettere: "l'omologazione", "io so i nomi dei responsabili delle stragi", "sono contro l'aborto", "la scomparsa delle lucciole", "il Palazzo", "il Processo alla Dc", "abolire immediatamente la scuola media d'obbligo", "il fascismo degli antifascisti", "abolire immediatamente la televisione", eccetera.
D'Elia conduce anche un' efficace critica a vari orientamenti e consorterie, che non hanno capito o che hanno osteggiato e attaccato Pasolini: dai neoavanguardisti agli accademici. Ma credo che vadano ricordate anche le numerose, frettolose, interessate appropriazioni post mortem di Pasolini: dai letterati che cominciarono subito a chiamarlo "Pier Paolo" vantando con disinvoltura improbabili amicizie per smania di protagonismo, ai postfascisti o ai ciellini, che proprio quest'anno ne hanno tentato la cooptazione, salvo poi applaudire trentaquattro volte il filosofo difensore della razza e nemico delle "diversità". Perfino le appropriazioni fatte dal partito comunista e dalle sinistre, certamente più autorizzate da tante battaglie comuni e da tante prese di posizione di Pasolini, sono state riduttive e non hanno colto il nucleo profondo della sua esperienza.
Soprattutto il Pasolini corsaro ha lasciato la straordinaria lezione di una specifica e originale politicità intellettuale: quella di un oppositore solitario e irregolare fuori e contro le istituzioni, di un attivo e coinvolgente testimone e giudice, pedagogo e accusatore, attraverso illuminanti analisi e requisitorie, e attraverso una scrittura polemico-problematica di nuova efficacia e funzionalità. Una lezione insomma, che non ha avuto eredi.

Gian Carlo Ferretti

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Conosci l'autore

Gianni D'Elia

(Pesaro 1953) poeta italiano. In versi di limpida musicalità che trascolorano in un’apparente semplicità dialogica, dà voce alla precarietà esistenziale della sua generazione, mettendo in risalto l’estraniazione dell’uomo dall’esperienza - privata, etica, civile e sociale - e l’urgenza malinconica e tormentosa di un rapporto più vero con la realtà. Non per chi va (1980), Segreta (1989), Notte privata (1993), Congedo della vecchia Olivetti (1996), Bassa stagione (2003), Nella colonia marina (2009). È anche traduttore di poeti simbolisti e surrealisti francesi.

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