“Non esiste, oggi, leader politico che affermi con tanta incisività il valore della politica come in questo testo di Bono Vox”. Non è una citazione tratta da questo libro, ma da uno meno recente (2006) e significativamente intitolato Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro. L'autore era l'allora presidente della provincia di Firenze, Matteo Renzi.
Il testo in questione era per la verità un discorso tenuto nel settembre 2004 dal cantante in occasione del congresso del Labour Party. Ne riportiamo un breve estratto: “Ascoltate, lo so come tutto questo può suonare. C'è una rockstar qua sopra che urla imperativi che gli altri devono realizzare. Ma questo è quello che facciamo, noi rockstar. Voi non potete fare così (…) Lennon e McCartney hanno cambiato il mio mondo interiore; Blair e Brown possono cambiare il mondo reale. Ho incontrato gente le cui vite possono dipendere dalle decisioni di questi due uomini importanti. Essi hanno grandi idee. E le promesse che hanno fatto potranno salvare centinaia di migliaia di vite”. Basterebbe ricordare le centinaia di migliaia di morti (al momento del congresso erano già oltre ventimila solo tra i civili, fonte “iraqbodycount.org”) provocate dall'intervento militare in Iraq, di cui Blair fu il principale sostenitore in Europa, per dare un'idea di ciò che Bono rappresentava allora, e continua a rappresentare oggi.
Il libro di Harry Browne si spinge invece in un'analisi molto più profonda. Se è vero che The Frontman è uscito in origine per la collana “Counterblasts”, il cui il principale intento è la tradizione del pamphlet, Browne va ben oltre il dichiarato intento di (per dirla con le note di copertina di Wu Ming 1) “smascherare il luccicante principe del chiagni e fotti Vox”. Certo, di scheletri nell'armadio Bono ne ha parecchi, e Browne li elenca e li analizza puntigliosamente: dalle speculazioni edilizie a Dublino alle opache manovre finanziarie delle innumerevoli (e quasi tutte misteriosamente fallite) società legate alla band, dall'ignobile rifiuto di partecipare alla parata del St. Patrick's Day a New York perché conteneva un riferimento a Bobby Sands all'ancora più ignobile campagna pubblicitaria africana di Bono e sua moglie per Louis Vuitton (consociata con la società diamantifera De Beers, coinvolta nella deportazione violenta di migliaia di persone in Botswana).
Tuttavia, il punto focale del libro non è questo elenco. “Il fenomeno Bono” scrive Browne in uno dei capitoli conclusivi del libro “è profondamente collegato ai tentativi dei leader occidentali degli ultimi decenni, sia dentro che fuori i palazzi della politica, di proiettare un'immagine di se stessi come visionari di una qualche forma di umanitarismo”. Questo processo di legittimazione passa dalla costruzione di un'immagine blandamente ribellistica e fintamente depoliticizzata. Nei discorsi di Bono riecheggiano forti e familiari invocazioni di giustizia, messe però al servizio di un altro tipo di narrazione. In altre parole, il potere si ammanta di una patina rock per apparire più umano e benevolo. Non solo utilizzando Bono o altri personaggi come fulcro esterno, come “copertura umanitaria”: pensiamo al sax di Bill Clinton, a Let's stay together di Al Green cantata da Obama, alle foto in stile “Fonzie” di Renzi. È passato molto tempo da quando George Bush Senior, nella sua fallimentare seconda campagna elettorale, prendeva in giro Clinton perchè “amico delle rockstar”. Questo ci spinge ad altre domande: cosa è diventato, oggi, il rock? Il processo di riarticolazione (per usare un'espressione del musicologo Richard Middleton) del rock da contenuti potenzialmente sovversivi verso schemi più innocui è compiuto senza possibilità di ritorno? Tutto ciò ha a che fare con il fatto che la quasi totalità degli artisti rock di successo mondiale è emersa prima della metà degli anni novanta?
Ma soprattutto, ci pare di scorgere lo stesso meccanismo nella politica, specie nei partiti neoriformisti (o presunti tali) europei. Esemplare è in questo senso l'ultimo film di Veltroni su Enrico Berlinguer: resta il simbolo, sacralizzato, ammantato di nostalgia postmoderna (la stessa che si prova quando si assiste a un grande concerto rock, magari proprio un concerto degli U2), ma svuotato di ogni riferimento alla realtà politica attuale, e messo al servizio di un discorso che, nel concreto, è più conservatore che riformista, quando non reazionario.
Merito di Browne è riuscire, partendo da un caso apparentemente molto specifico come quello di Bono, a sollevare tutte queste importanti questioni. Unico neo, la suddivisione tripartita (Irlanda, Africa e Mondo) del volume. Un percorso più lineare forse avrebbe potuto dirci ancora di più sull'evoluzione di Bono dall'antimilitarismo di War alla giustificazione della guerra in Iraq: “Sto dalla parte del Presidente Bush quando cerca di spaventare Saddam Hussein, ma deve cercare di portarsi dietro il resto del mondo”.
Simone Garino