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Anno edizione: 2016
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"No Man's Land" è un film del 2001 diretto dal bosniaco Danis Tanovic, ambientato nel 1993 durante la guerra serbo-bosniaca. Sandro Veronesi ne ha rielaborato - non si capisce bene con quali finalità - la sceneggiatura, traendone un testo di impianto teatrale in due atti, in cui i dialoghi scarni e veloci dei protagonisti si alternano alle indicazioni di scena, più didascaliche e talvolta pleonastiche. La trama narra di due miliziani bosniaci che, rimasti isolati dalla loro pattuglia, trovano rifugio in una trincea deserta, a metà strada fra il fronte serbo e quello bosniaco, nella terra di nessuno che divide i due eserciti nemici. Due soldati serbi giunti in ricognizione affrontano gli avversari non solo con le armi, ma anche verbalmente, in un crescendo di accuse rabbiose, intercalate da un turpiloquio accanito. I quattro, scambiandosi vicendevolmente i ruoli di vittima e aggressore, si sfidano con pistole e coltelli, fino a che uno di loro viene ucciso e un altro viene steso sopra una mina balzante, pronta a esplodere alla prima incauta scossa. Le parole smozzicate e deliranti dei soldati si confondono con le canzoni dei Doors e di Springsten diffuse da una radiolina, con i lamenti dei feriti, con le esplosioni dei proiettili, in un'atmosfera feroce che ricorda l'assurdo del teatro di Artaud o di Beckett. Intervengono nel tentativo inefficace di prestare soccorso due membri dei Caschi Blu e un artificiere, bloccati nelle loro operazioni da superiori indifferenti e preoccupati solo di evitare scandalosi strascichi polemici: e a inquinare il quadro già di per sé tragico concorre una querula giornalista dell'emittente Global News, desiderosa di trasmettere in televisione uno scoop sensazionalistico. Alla fine, uccisi gli altri due soldati superstiti, rimane nella trincea abbandonata solo il militare bosniaco sdraiato sulla mina, condannato a una sanguinosa e inevitabile immolazione dall'egoismo di amici, nemici e osservatori ignavi di una guerra fratricida.
Solo i grandissimi sanno reinventare una sceneggiatura di successo per piegarla alla propria ideologia. Veronesi riesce a dipingere la guerra non solo nella sua vuota brutalità, ma anche nella banalizzazione che di essa compie un aggressivo servizio stampa, alla ricerca dello scoop senza nessuna aderenza al vero. A me, di solito, non piacciono i copioni teatrali: questo fa sicuramente eccezione.
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