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L' eco delle città vuote - Madeleine Thien - copertina
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L' eco delle città vuote - Madeleine Thien - copertina
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Descrizione


Janie ha lasciato la Cambogia a undici anni. In Canada, ad attenderla, c'è il suo futuro: l'adolescenza con la madre adottiva, gli studi di elettrofisiologia, e poi l'incontro con Navin, il marito, e la nascita di Kiri. I genitori e Sopham, il fratello minore, li ha seppelliti insieme alla sua vecchia identità, la bambina che i khmer rossi chiamavano Mei. E con loro Phnom Penh, "la città alla confluenza dei fiumi" con i suoi templi luccicanti, una città vuota dopo il 17 aprile 1975, congelata nel tempo dall'assenza di vita; i campi di lavoro, dove l'Angkar li aveva confinati privandoli anche dell'identità; l'interminabile traversata via mare verso la Malesia e l'istante fatale in cui la sua mano ha lasciato quella di Sopham, per sempre. Ma le innumerevoli anime che un uomo si porta dentro, il pralung, talvolta possono rientrare da una finestra aperta, possono essere restituite al legittimo proprietario, e quando Hiroji - il collega, l'amico - le chiede di aiutarlo a ritrovare James, il fratello scomparso in Indocina mentre infuriava la guerra, per Janie arriva il momento di riappropriarsi di una parte di sé. La Cambogia - terra di una bellezza violenta, amara - è il punto di partenza e di arrivo, il crocevia dove vanno a confluirei destini dei protagonisti in un viaggio a ritroso nella memoria, personale o collettiva.
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Dettagli

2013
230 p., Brossura
9788896538654

Valutazioni e recensioni

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Dostov
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Perché leggere storie dolorose? Il romanzo che ho in lettura ne custodisce una. Cambogia, la guerra, i khmer rossi, gli uomini e le donne di città esportati come schiavi nei campi di lavoro, le famiglie brutalizzate e spolpate, le vite brutalizzate e annichilite. Leggo e mi prende male per le Janie e i Sopham reali e immaginari, cambogiani e mondiali, di allora e di sempre. Quel che riescono a fare gli umani agli altri umani: la crudeltà, la tortura, l’ottusa rinuncia all’empatia che salva chi la prova e chi la fa provare. Leggo i romanzi, anche i più dolorosi, perché sono la prova più inconfutabile che qualcosa è passato, che qualcuno è sopravvissuto per raccontarla. Per me tutte le storie provengono dall’Ismaele battezzato da Melville ma che appartiene alla specie umana fin da sul primo buio bagliore, perché niente vada perso e persino il dolore e l’orrore diventino la rivalsa di una buona storia ben scritta.

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Voce della critica

  "Ellie aveva cinquatotto anni quando ha iniziato a perdere l'uso del linguaggio (…) quando le parole del Padre Nostro non le si erano materializzate sulle labbra (…) l'intero concetto di linguaggio aveva perso importanza". Alzheimer. La diagnosi incontrovertibile, non stupisce in un romanzo sul Canada, paese che tra i primi ha incoraggiato l'eccellenza nella ricerca sul morbo. Janie, ricercatrice che studia i neuroni dell'aplisia, una lumaca di mare, nasconde ben altro: "La voce di Kiri è sempre presente nella mia testa (…) quello che ho commesso è imperdonabile (…). Non avresti mai dovuto lasciare il bacino idrico, saresti dovuta rimanere nelle grotte. Guardati attorno, alla fine siamo tornati allo stesso punto, non è così?". La voce allucinatoria che fa scivolare la giovane donna e madre dalla terza alla seconda persona è il trauma che "si parla". "Mi infilo nella chiesa di St Kevin (…). Una donna anziana si volta verso di me. 'Hai bevuto') La donna abbassa lo sguardo sul bambino che tengo in braccio e che non è altro che una sciarpa (…) la stendo e cerco di lisciarla contro le gambe. 'Ho provato a salvarlo' le dico. 'Ho provato a impedire che annegasse'". Non si può sfuggire al passato, quando la storia ti investe come spazzatura trascinata dal vento, il tormento ritorna e ritorna. E arriva; arriva il momento in cui la narrazione prende la piega giusta, dopo svariati tentativi di raccontarla dall'inizio, da un inizio qualsiasi, la storia di Mei si dipana per il corso interminabile degli anni in cui i Khmer rossi hanno privato Janie prima di suo padre, portato via su un camion e scomparso per sempre, poi di sua madre, abbandonata in un'infermeria senza medicinali, curata una volta con lo zucchero, l'ultima volta nemmeno con quello, lasciata morire da medici-infermiere-ragazzini, che non sapevano né leggere né scrivere; infine di suo fratello, poco più che bambino-carceriere, che ha visto cose che suo padre in vita non avrebbe neppure voluto immaginare. Peggio della morte. Mei ha dovuto reinventare un'identità, lasciar andare tutti i legami familiari, gli affetti, le cose materiali, trasformarsi in contadina, soffrire la fame e gli stenti in nome dell'utopia Khmer, un'utopia di uguaglianza. Un fallimento umano più che storico, che ha reso storpie menti e anime, che ha popolato Phnom Penh di zombie deprivati di scopo, orizzonti, mete. La sistematica e forzosa dissoluzione del tessuto sociale, dei legami familiari e affettivi, della solidarietà, dell'amicizia, della fiducia negli altri, della capacità di provare empatia, l'eradicazione della cultura e dell'istruzione, la cancellazione dell'identità e l'ossessione classificatoria per schedare la popolazione è la storia che Mei/Janie è costretta a riformulare, che torna in allucinazioni, vergogna per essere sopravvissuta pari solo al terrore di sparire, voci, violenza, pianto dirotto per giorni, insonnia, per una donna il cui corpo-mente è come un nervo scoperto. La sua voce, però è delicata, lirica, priva di rancore, volubile e malinconica, struggente e oggettiva, realistica, lucida e allucinata insieme, perché costretta a narrare una realtà storica distopica, disumana in un modo indicibile, costretta a narrare tutto il male di vivere dopo. Come i bambini protagonisti del romanzo di Thien, Janie, Sopham, Kiri, anche Hiroji potrebbe essere uscito dalle pagine di Kogawa. Giapponese di seconda generazione, medico, come suo fratello James, è scomparso nel 1975 in Cambogia da un campo profughi della Croce Rossa. La narrazione comincia a Vancouver, centro di un'importante comunità asiatica, la stessa che ha subito le deportazioni nel 1945, e da cui proviene anche Janie, arrivatavi a undici anni, adottata da una coppia canadese che conosceva la Cambogia grazie a una vacanza negli anni sessanta. Hiroji ha perso suo fratello e ora è partito per cercarlo, Janie lo sa, lo sente, lui non può sparire: sa che cosa vuol dire lasciare un vuoto, un lutto inarticolato, nelle vite degli altri. Da lui, un neuroscienziato, un orientale gentile, un amico caro, Janie si aspetta che le "insegni come accettare questa vita". In questa vita da ricercatrice canadese di neuroscienze, Janie deve riordinare lo schedario di Hiroji, alto sino al soffitto, cartelle cliniche di pazienti, gli studi portati avanti per anni, insieme. Nell'altra vita "l'Angkar aveva l'ossessione di registrare racconti autobiografici. Ogni singolo individuo era tenuto a dettare o a trascrivere la storia della propria vita (…) capivamo che di quelle biografie non c'era da fidarsi, che potevano distruggere noi e tutti i nostri cari". In questa vita, il piccolo Kiri, che in Khmer significa "montagna", "mette su un disco, lo sfila con cautela dalla custodia di cartone tenendolo delicatamente tra le dita". Janie sa che sceglie sempre lo stesso. Conosce "il modo in cui osserva la puntina alzarsi e il braccio meccanico andare al suo posto". Nell'altra vita suo fratello Sopham aveva una pila di dischi accanto al letto, ha dovuto lasciarli lì e andarsene. Janie che ha perso tutti e tutto, lavora in una clinica universitaria dove le persone perdono la vista, le parole, il proprio volto, parti del proprio corpo; perdono sinapsi, neuroni cerebrali. Lei che ha perso decine di cellulari, il portafoglio, le chiavi, se stessa, madre inadeguata, confessa: "avrei voluto legare il polso di mio figlio al mio con un pezzo di spago e salvare così entrambi". Il trauma: "I khmer rossi ci avevano insegnato a sopravvivere, a camminare da soli, senza niente in mano". La chiave di casa, che il fratello aveva conservato, forse per ritornare ai suoi amati dischi, era scivolata via, persa; il fratello le ha legato il polso a un legno che galleggiava. Il nodo non si è sciolto. Il fratello è sparito nel mare. La cura: Hiroji, il più gentile e generoso tra gli uomini, che vede suo fratello in ogni paziente "muso giallo". Canadesi-orientali: Navin, il marito di Janie, un uomo malese, premuroso, gentile, pronto a perdonarla, come Hiroji è pronto a ridere di lei; Janie e Kiri, tutti rifugiati, psicologicamente, in Canada, il paese-mosaico, dopo la seconda guerra mondiale e le peggiori guerre civili; tutti a rimettere insieme nuove vite, a studiare come funziona la mente, quando, riluttante, deve lasciare andare pezzi di sé. Grazie alla traduzione, ottima, di Caterina Barboni, che restituisce il linguaggio lirico della sofferenza, del trauma, del ricordo nostalgico, del bisogno di tenerezza, questo romanzo sollecita diverse corde. Non è un romanzo "etnico", su migranti, profughi e rifugiati, malati di Alzehimer e medici malati di lutto, bensì, è il romanzo di chi si è radicato perché privato di radici. Non è un romanzo autobiografico, Thien è sino-canadese. È un romanzo sulle città canadesi e su Phnom Penh (le città vuote del titolo italiano), sull'infanzia rubata, un manuale di trauma studies su chi vive con i fantasmi, chi si perde e chi non si rassegna alla perdita, su un sistema neuronale che si disgrega, degenera, come la società cambogiana. Il titolo originale rimanda alle pattuglie di confine: Cani lungo il perimetro. Le metafore sono come rintocchi tra i due mondi, passato e presente, con significati diversi. I lacci non tengono, passati dei fili attorno ai polsi per legare; morti di fame si nutrono di corteccia d'albero, sono gli zombie che lavorano nei campi per produrre cibo, che non sopravvivono alla fame, agli stenti, alle infezioni. Questo romanzo nutre con piccoli gesti d'amicizia, di gentilezza, di generosità, di pazienza, di amore incondizionato, tutti valori che oggi più che mai sembrano solo orientali. Ma l'Oriente li ha calpestati. A ricordarcelo è una scrittrice di successo e di indubbio talento (Certezze, Mondadori 2006).     Carmen Concilio  

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La recensione di IBS

È un’abitudine che ormai fa parte di me, quella di soffermarmi su un titolo, prima di iniziare la lettura di un libro. Per ascoltare quello che vuole dirmi, per fare attenzione alle immagini che evoca nella mia mente, per avere un’anticipazione della storia, per entrare nella giusta atmosfera. “L’eco delle città vuote”: qual è l’eco del silenzio? Può essere assordante, può riempirsi di voci delle ombre che percorrono strade vuote alla ricerca di altre ombre, seguendo itinerari del passato. Suscita angoscia, l’eco delle città vuote, ci martella con la domanda senza risposta - dove sono finiti tutti quanti? Se il silenzio potesse parlare…
Il romanzo di Madeleine Thien è un libro sullo scomparire, sulla Storia che cancella vite umane con un colpo di spugna, come avviene nello splendido romanzo di Daniel Mendelsohn, “Gli scomparsi”. Gli ebrei della yiddishland durante le seconda guerra mondiale nel libro di Mendelsohn, i cambogiani negli anni ‘70 in quella tremenda guerra civile che si pensava finisse il 17 aprile 1975 quando i khmer rossi costrinsero alla resa le truppe governative per dare inizio, invece, ad una serie di incredibili violenze. Phnom Penh è la città dove romba il silenzio - per tutte le città che hanno perso la voce.
La bambina che era scampata al duro lavoro del campo, che non era affogata durante la fuga in barca perché suo fratello le aveva legato un polso ad un pezzo di legno, si chiama Janie nella nuova vita con la famiglia adottiva in Canada ed è ormai sulla quarantina all’inizio del romanzo. Ha studiato Elettrofisiologia, si è sposata, ha un bambino. Tutto sotto controllo. O almeno così pare. Un giorno dimentica di andare a prendere il bambino all’asilo. Un giorno alza la mano su di lui. Il passato è tornato di prepotenza nella sua mente, con il ricordo dei genitori, del fratello, della vita ‘prima’ del 17 aprile e ‘dopo’ - la scomparsa del padre, la marcia estenuante attraverso le campagne sperando in un futuro luminoso che era invece un inganno. Tanto più che, nella sua vita di adesso, è scomparsa un’altra persona vicino a lei - un amico giapponese che studiava il cervello e i meccanismi della memoria. Hiroji Matsui è andato a cercare il fratello maggiore di cui non ha più notizie dal 1975: quattro anni prima era partito con la Croce Rossa per portare soccorsi in Cambogia.
È come se ogni personaggio fosse alla ricerca di uno scomparso: Janie segue le orme della sua famiglia, rivivendo per noi la crudele realtà del regime dei khmer rossi, con fame, malattie e morte sempre in agguato, mentre Hiroji calpesta quelle del fratello, finito ad esercitare la medicina senza strumenti e senza medicine. Quali trasformazioni subiscono un uomo, una donna, un bambino, quando sono a contatto quotidiano con la violenza, quando la morte diventa un’abitudine e salvare la propria, di vita, diventa una priorità assoluta? È scomparsa anche l’innocenza del bambino costretto a fare interrogatori, per non dire di quello che imbraccia un fucile. È scomparsa una parte di Janie, quella che si chiamava Mei, che aveva un padre che faceva il traduttore. Quando si è perso tutto, quando si striscia nel buio verso una salvezza incerta, nelle caverne che trapassano le montagne che fanno da confine tra Cambogia e Thailandia - quale brandello del vecchio sé può restare in due bambini di undici e nove anni? Ed è possibile superare certi traumi, o restano dormienti sotto la superficie di una stabilità riacquistata per poi esplodere quando qualcosa scalfisce la patina che li ricopre?
C’è qualcos’altro ancora che Madeleine Thien vuole dirci con i suoi personaggi cambogiani e giapponesi. Janie ha il ruolo di protagonista nel romanzo, con una Cambogia bella e dilaniata sullo sfondo, ma, mentre il suo fratellino è veramente scomparso per sempre - e lei ne sente la colpa -, il fratello di Hiroji è scomparso di sua volontà e verrà ritrovato: la storia che ha alle spalle parla di altre tragedie di guerra e di altre scomparse, perché James Matsui (si chiamava Ichiro, in un altro tempo e in un’altra vita) ricorda la bomba atomica che ha messo fine alla guerra in Giappone, facendo scomparire altre migliaia e migliaia di persone.
Un libro molto bello nell’angoscia che comunica. Ci parla di un paese lontano, ma, non chiedere per chi suona la campana, suona per te: è un dramma che ci riguarda tutti, se non vogliamo che scompaia la nostra umanità.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Madeleine Thien

1974, Vancouver

Madeleine Thien è nata a Vancouver nel 1974, anno in cui i suoi genitori si sono trasferiti in Canada dall’Estremo Oriente (il padre è cino-malese, la madre di Hong Kong). Nel 2001 esce il suo primo libro, Simple Recipes, una raccolta di racconti che le vale l’elogio della connazionale Alice Munro e l’inserimento nella short list del Commonwealth Writers’ Prize - libro che viene pubblicato in Italia nel 2019 dall'editore 66th and 2nd - seguito a pochi mesi di distanza da The Chinese Violin, libro per bambini illustrato da Joe Chang. Il successo internazionale arriva con Certezze (2006), uscito in Italia per Mondadori e tradotto in sedici lingue. Il quarto romanzo della Thien è L’eco delle città vuote. Nel 2017 esce Non dite...

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