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Massimo Rizzante conclude il suo libro con un vibrante post-scriptum, "un monumento alla fragilità", quale si esprime, o dovrebbe esprimersi, nel carattere femminile: "non è solo dolcezza, generosità, tenerezza...ma una virtù più sottile...(che) cede, cede sempre, ma mentre cede assimila e assimilando rigenera". Pervicacemente ostile al "veleno della virilità", afferma infatti: "ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell'uomo è un pezzo di civiltà che se ne va", perché "l'uomo non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e...perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso". Il libro è quindi un omaggio alle donne, protagoniste assolute dei versi; e in particolare la dedica cita la madre, la moglie, e un'amica marocchina dell'autore. Sono voci femminili quelle che parlano nella prima sezione del volume: ventidue donne nord-africane che in sei quartine raccontano la loro storia di povertà e sfruttamento, analfabetismo e ricatti, malattia e sporcizia. I loro nomi sono arabi ("l'arabo possiede/ tanti gemiti quante mosche la testa di un agnello macellata"): Naima, Zohra, Kawthar, Fouzia... I luoghi citati appartengono tutti alla miseria del Marocco, sfruttata turisticamente e sessualmente dall'Occidente ricco e intellettuale: Ourika, Essaouira, Casablanca, Marrakech, "dove non c'è resurrezione". Inframmezzato dalla lettera di un amico di origine maghrebina e dal diario estivo di una giovane prostituta di colore, il volume si conclude con altre due sezioni, sempre al femminile. Ma qui le protagoniste sono donne occidentali, talvolta castranti quando imitano la protervia aggressività degli uomini: comunque vittime. Versi rabbiosi di denuncia (certo non fragili!), e che sempre ruotano intorno al tema della sessualità imposta o subita come violenza; versi provocatoriamente indifferenti alle invenzioni linguistiche e alla resa estetica; visceralmente polemici.
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