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Il romanzo di Lino Lavorgna è una metafora dai vaghi sentori shakespeariani, che sempre pongono l'uomo di fronte all'eterno dilemma: "Essere o non essere". "E' più nobile all'animo umano subire i dardi e i sassi dell'iniqua fortuna (in qualche traduzione si legge "giustizia" al posto di "fortuna") - si chiede Amleto - o levarsi in armi in un mare di triboli e, combattendo, disperderli?" Ovviamente per Renato, il protagonista (che metaforicamente impersona Parsifal, il cavaliere puro per eccellenza), il dilemma non si pone proprio, perché "l'essere" è parte integrante della sua natura e quindi non deve effettuare alcuna scelta. La sua sorpresa e lo sconvolgimento esistenziale nel constatare come per altri fosse così facile decidere di "non essere", vendendo l'anima al diavolo, rappresentano il vero punto nodale di tutto il costrutto letterario, che evidenzia anche i limiti di coloro che, abituati a "volare da vetta a vetta senza scendere a valle" (i richiami nicciani sono frequenti ed espliciti) stentano a comprendere, di fatto, la natura umana e le miserie di chi è costretto a camminare perennemente con il capo chino, o peggio, a strisciare a livello del suolo. Pur non essendovi sostanzialmente nulla di nuovo, da un punto di vista concettuale, antropologico, filosofico, è senz'altro originale l'impianto narrativo, che rende ancora più "esaltante" la figura del novello cavaliere della tavola rotonda. Un romanzo che nasce come film, si apprende nella prefazione, e che sembra davvero destinato a trasformarsi in tale.
Si legge a pag. 7 del testo il pensiero di J.J. Bachofen sul primato del simbolo sulla lingua: Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi a un singolo pensiero per volta. Nell'assioma va riconosciuta la chiave interpretativa del lavoro del Lavorgna. In esso il prevalere del simbolo nella essenzialità del messaggio riduce al minimo l'apporto dell'elemento linguistico, che finirebbe per essere semplice elemento esplicativo se in omaggio - forse - all'incantevole pagina di R. Fucini riportata in esordio di narrazione, non trovasse spazio nelle rappresentazioni paesaggistiche e antropologiche di cui pure si costituisce il testo. Allo sviluppo del progetto narrativo, che ha la stringatezza del canovaccio teatrale o cinematografico, concorrono motivi di vario genere, dal fantastico al virtuale, dal surreale al leggendario, mentre quello realistico, come la chiamata in causa di una Questura e persino di un Ministero per un fenomeno trans materiale (il prender fuoco delle auto sulla Napoli-Pompei), vuole essere semplicemente funzionale al prosieguo del progetto stesso. Nella trama, che vede in tal Renato Federico il moderno Parsifal, impegnato (e qui sta il sogno) nella impossibile impresa di riportare il mondo a una condizione di vivibilità, ci si imbatte in frequenti espansioni descrittive con richiami espliciti a luoghi e personaggi reali tra i quali l'indimenticato "don" Mimì Rea. Unità prevalente di tempo, luogo e azione è Napoli con i suoi dintorni, dall'Area Flegrea a Capri, che fa da sfondo alla Goletta che funge da "base operativa" per Parsifal. L'autore mostra di sapersi ben orientare tra diversi ambiti culturali; ambiti che vanno dalle scienze alla filosofia, dalla psicologia alla sociologia, dalla matematica alla letteratura, dall'astronomia alla musica, esibendo una gestione ineccepibile dell'impianto logico-sintattico del discorso.
Di carne in cottura, nella trama, ve n'è davvero tanta. E' facile, però, trovare una sola parola che "sintetizzi" quel funambolesco e affascinante viaggio tra spazio e tempo: "Amore". Tutto il romanzo, infatti, è un inno all'Amore, concepito nella sua accezione più ampia: Amore per la vita, innanzi tutto. E Amore per tutto ciò che fosse degno di essere amato. I luoghi, a cominciare da Napoli, che offre il suggestivo scenario per lo sviluppo della trama, ci appaiono come li abbiamo sempre "sognati" e come non li abbiamo mai visti. Le persone, maschere dell'esistenza umana, rivelano la loro essenza più cruda e realistica, nel bene e nel male e "al di là del bene e del male". E' arduo anche compiere fino in fondo il proprio dovere, specialmente quando esso impone "il patto con il diavolo", come capita a colui che "deve" fermare ad ogni costo colui che firma i suoi proclami con il nome "puro" per eccellenza, "Parsifal", osando sfidare le leggi degli uomini. Era un "puro folle", il Parsifal dei romanzi cortesi e come tale appare, quello moderno, agli occhi di coloro che prigionieri lo sono davvero, ma delle convenzioni da loro stessi create. Nel romanzo finzione e realtà si alternano in un inestricabile intreccio pregno di grande valenza simbolica e non è opportuno rivelare l'intrigante "pilastro letterario" intorno al quale si svolgono le varie vicende, che va goduto come un dono di cui s'ignori la sostanza fino al momento in cui non lo si renda manifesto. Le contrapposizioni che emergono nel confronto tra i vari personaggi costituiscono un altro punto di notevole interesse, alla pari di Flavia, la protagonista femminile, le cui azioni sicuramente faranno storcere il muso a coloro che, abbagliati dall'illusione illuminista, stentano ad accettare ciò che l'umanità rivela con forza,da sempre: la sua natura irrazionale. Quella natura che affiora pgina dopo pagina, lasciandosi alle spalle ogni fardello nichilista, per "andare avanti" con rinnovata speranza.
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