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Razzisti per legge. L'Italia che discrimina
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Razzisti per legge. L'Italia che discrimina - Clelia Bartoli - ebook
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Razzisti per legge. L'Italia che discrimina
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Descrizione


È facile chiamare 'razzista' l'uomo che aggredisce un altro uomo solo perché di etnia, nazionalità o religione sgradita. Più arduo è percepire lo scandalo di leggi e procedure che costruiscono la disuguaglianza. Dare un nome alle cose serve a vederle. Si chiama 'razzismo istituzionale' quel complesso di norme e politiche che tracciano una linea di separazione tra chi ha diritti e chi possiede solo incerte e revocabili concessioni.Questo libro racconta un'Italia razzista verso chi è designato come 'straniero'. Mette insieme riflessioni teoriche e storie di casi gravi e lievi, noti e sconosciuti, di discriminazione istituzionale, come la cosiddetta 'emergenza Lampedusa' o la vicenda di un'insolita assegnazione a una famiglia rom di un prestigioso appartamento confiscato alla mafia.
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Dettagli

Testo in italiano
Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
IX-179 p.
Reflowable
9788858103869

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L'Italia è un paese razzista? Sì. E Bartoli, con uno stile chiarissimo e rigoroso, ci spiega perché. Una lettura necessaria, che stimola la riflessione. Da non perdere.

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L'Italia è un paese razzista? Sì. E Bartoli, con un stile chiarissimo e rigoroso, ci spiega perché. Una lettura necessaria, che stimola la riflessione. Da non perdere.

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Voce della critica

  Quanto i cattivi sistemi giuridici producono cattiveria sociale? Quanto la cattiveria sociale rende brutto il mondo per tutti? Quanto è cattivo il sistema giuridico italiano? Sono queste, in estrema sintesi, le domande che Clelia Bartoli si pone nel suo Razzisti per legge: l'Italia che discrimina, argomentando con vivacità, in uno stile semplice, lineare e avvincente, la tesi dell'invenzione della neo-razza dei migranti da parte del diritto italiano. Il diritto è un potente strumento di manipolazione della realtà sociale che mira a regolare. Le classificazioni che il diritto opera fra gli esseri umani, infatti, ne determinano la corrispondente costruzione dell'identità, condizionando il modo in cui gli individui percepiscono il mondo, gli altri e se stessi. "Le istituzioni realizzano le classificazioni e le classificazioni determinano il modo di agire e pensare degli esseri umani, le azioni e i pensieri degli esseri umani rafforzano le istituzioni esistenti" diceva già nel 1987 la famosa antropologa inglese Mary Douglas, nel suo Come pensano le istituzioni (il Mulino, 1990). È questa la tesi da cui anche Bartoli prende le mosse: le istituzioni che pensano in modo cattivo determinano un cattivo modo di pensare e di agire delle persone e forniscono così cattive soluzioni ai problemi di convivenza collettiva. Fra le cattive istituzioni Bartoli annovera quelle che, attraverso classificazioni discriminatorie, plasmano la realtà sociale creando categorie di umani di serie A e di serie B, cui sono attribuiti diritti e tutele di diverso tipo. Ciò che ne deriva è un razzismo istituzionale, che arbitrariamente distingue in base al colore della pelle oppure in forza del requisito della cittadinanza, producendo relazioni di potere, convinzioni di superiorità o inferiorità, luoghi di ghettizzazione, linguaggi e atteggiamenti di odio, esclusione sociale, emarginazione e deprivazione dei gruppi resi inferiori per legge. Un certo elemento − il colore del derma in un caso o la cittadinanza in un altro − viene eletto dal diritto a fattore di differenziazione fra esseri umani, i quali, rinchiusi nelle nuove gabbie concettuali, pensano e agiscono come se quella linea di demarcazione appartenesse alla natura delle cose. Nel tempo il concetto di razza biologica ha perso credibilità come categoria giuridica e la categoria di migrante ne ha oggi preso il posto. Gli "stranieri" e i "clandestini" sono le neo-razze inventate dagli ordinamenti giuridici: è questa la tesi argomentata con efficacia da Bartoli. In Italia il processo di razzializzazione dello straniero passa tanto per le leggi, i regolamenti, le ordinanze o le circolari amministrative che relegano il migrante in una condizione di inferiorità umana e sociale, quanto per le pratiche di cronica e diffusa discriminazione poste in essere nei suoi confronti in molti campi della vita pubblica. "Per l'extracomunitario la condizione di straniero è divenuta come un dato biologico del quale è quasi impossibile sbarazzarsi", è la constatazione dell'autrice. Il razzismo delle nostre istituzioni, che in quanto sistemico e pervasivo è assai più grave di quel suo diretto risultato che è il razzismo individuale, è indagato nel testo alla luce di fatti realmente accaduti, che colpiscono il lettore per la banalità del male di cui sono espressione. È il caso per esempio di Rosa, nata e vissuta a Napoli, che, mentre festeggia il suo diciannovesimo compleanno con una gita al mare insieme al fidanzato, a un posto di blocco dei carabinieri scopre di essere clandestina, perché il suo unico genitore, la madre, non è italiana ma di Capoverde. Rosa riceve un ordine di espulsione: le viene imposto di tornare al suo paese, di cui non conosce forse neppure la collocazione geografica, con tanto di sanzione penale in ipotesi di inottemperanza! O è il caso di Chandra e di suo marito, provenienti dallo Sri Lanka, lavoratori e contribuenti italiani con regolare permesso di soggiorno, i quali vogliono ricongiungersi al figlio che ha otto anni e da cui sono lontani da sei. La casa che trovano, però, ha una distanza fra pavimento e soffitto di 268 cm in luogo dei richiesti 270: il ricongiungimento con il figlioletto viene loro pertanto negato. E "se l'immigrato regolare viene tenuto al margine della comunità dei cives, l'irregolare per la legge e per il comune sentire rischia di essere ripudiato dalla specie umana". Privato della libertà personale per un tempo lungo fino a diciotto mesi solo a causa del suo status di clandestino, limitato nel suo diritto a essere curato, a essere istruito, a dormire sotto un tetto, senza tutele giuridiche nei confronti di chi lo sfrutta al pari di uno schiavo, il migrante irregolare è disumanizzato dal diritto italiano al punto che il nostro stato nel 2009 lo respinge in mare incurante della drammatica sorte, fatta di torture e di morte, che gli toccherà al suo sbarco in Libia. Le istituzioni del razzismo producono razzismo e, come dimostrato dal famosissimo esperimento risalente al 1968 della maestra di una scuola elementare negli Stati Uniti, trasformano il potenziale di solidarietà degli attori sociali in conflittualità e antagonismo, peggiorando la qualità della vita di tutti. La maestra americana, che dopo di allora si trovò più volte a ripetere la stessa prova ottenendo sempre gli stessi risultati, un giorno affermò che le persone con gli occhi blu erano migliori di quelle con gli occhi marroni e che quindi avrebbero avuto cinque minuti di ricreazione in più. L'effetto fu che i bambini si adeguarono con rapidità al messaggio istituzionale e, da cooperativi e uniti che erano, divennero dei "cattivi, brutali, piccoli discriminatori di terza elementare", formando gruppi antagonisti fra chi aveva gli occhi blu e chi li aveva marroni. Anni di studi di psicologia e di antropologia sociale indicano con sicurezza che le istituzioni hanno un dominio profondo e pervasivo sugli individui e sul loro modo di stare insieme. Le istituzioni razziste "pensano male", direbbe Mary Douglas, perché creano divisione ed esclusione sociale, e "gli effetti dell'esclusione sociale", ci ricorda Clelia Bartoli, "non riguardano solo gli esclusi: se una parte resta indietro, alla lunga tutti − ad eccezione di qualche élite − ne pagano le conseguenze". Occorre, dunque, che le nostre istituzioni cambino registro e comincino a "pensar bene", per modo da ingenerare meccanismi virtuosi di armonia sociale vittoriosi per tutti. È questo l'auspicio dell'autrice, che si incarica, in chiusura dell'agile e ricco volumetto, di suggerire un decalogo di principi programmatici che dovrebbero ispirare le politiche dell'immigrazione. Il timore che resta al lettore è però che le istituzioni giuridiche non siano al servizio della collettività e del suo benessere, ma siano funzionali, oggi come ieri, agli interessi economici che le muovono. Si tratta di interessi che hanno tutto da guadagnare dalla costruzione giuridica dell'inferiorità di chi vogliono depredare e sfruttare, siano essi gli Inca dei tempi dei conquistadores, i neri dell'epoca dello schiavismo americano o i migranti dei nostri giorni. In questa diversa prospettiva le istituzioni razziste pensano benissimo, perché il loro obbiettivo non è di risolvere i problemi della convivenza collettiva, ma di avvantaggiare chi è forte economicamente e lo vuole diventare ancora di più. Elisabetta Grande

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