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Anno edizione: 2015
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«Perché seguire le vicende di un gruppo di balordi che, a piedi o a cavallo, attraversano la steppa alla ricerca di un luogo, Čevengur per l'appunto, nel quale il comunismo si sarebbe generato da sé? Perché ascoltare i loro discorsi astrusi, le loro ridicole disquisizioni, e sopportare la loro prepotente corporeità immortalata in immagini scatologiche non di rado sconvolgenti?» La curatrice/traduttrice Ornella Discacciati ne propone due di risposte possibili che però sono roba da eruditi, perciò dirò la mia: non ci ho capito granché. È una prosa poetica, ricca, articolata e bella direi, soprattutto nelle descrizioni degli oggetti animati e inanimati; l'idea di fondo è più che buona, ma è un vagabondare nella steppa appisolata, fra gli animi dei protagonisti dai contorni sfocati, difficile da seguire. Ci voleva la dedizione e la concentrazione che, al momento, non sono stata in grado di applicare alla sua lettura. Faticoso in tutto, ma per chi ama come scrivono certi Russi e non si estenua facilmente come me, questo importante russo, anello di congiunzione fra Dostoevskij e Brodskij (come Chodasevič fra Puskin e Nabokov) non può sfuggire.
“Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire….” queste sono le parole lette nella quarta di copertina che mi hanno fatto prendere in mano il libro e acquistarlo. Ci sono libri che ti chiamano e questo aveva una voce assai potente dato che era infilato nello scaffale più basso della libreria Ambasciatori in centro a Bologna, in compagnia di altre meraviglie della linea letture della Einaudi. Cevengur è una visione, idea di città ideale, un concetto utopistico di socialità, dove le persone che ci vivono, o meglio, che dopo la rivoluzione lo ripopolano, scardinano ogni forma di vita lavorativa “nella norma” a favore di un concetto completamente rivoluzionario e irrealizzabile. Un libro che trova spazio al suo interno per concetti etici, filosofici e pensiero poetico, un libro difficile da raccontare come può essere difficoltoso il racconto di un ideale, di un pensiero astratto che non realizza se stesso attraverso la sua comprensione, tanto quanto quello che riesce a trasmettere e cambiare nelle vite di chi viene colpito dalle sue idee. Consigliato a chi cerca una lettura profonda, raffinata e senza ricerca di comoda scorrevolezza. “La bruta forza lavorativa, non avendo vie di sfogo, gli mangiava l'anima, e lui non era più padrone di se', preda di sensazioni che non provava mai quando lavorava. Cominciò a sognare: gli sembrava che suo padre, un minatore, stesse morendo e che la madre lo bagnasse con il latte del suo seno affinché riprendesse vita; ma il padre le diceva adirato: " se almeno mi lasciassi soffrire in pace, carogna", poi restava a lungo disteso e non si decideva a morire; la madre, curva su di lui, domandava: "ne hai ancora per molto?"; suo padre con l'ostinazione di un martire, sputava, si sdraiava bocconi e si raccomandava: "seppelliscimi con i calzoni vecchi, questi dalli a Zacharka
Ascoltavo Serena Vitale (maestra!) qualche giorno fa in radio consigliare senza alcun concorrente questo libro come il più bello per lei uscito quest'anno. Ho obbedito sovieticamente alla sollecitazione e l'ho letto in cinque giorni...Immenso! Non si scopre nulla dicendo che da sempre si è mormorato sulla fratellanza fra cristianesimo e comunismo, su queste due identità morali e sociali pressochè gemelle: nello spirito, negli intenti, nell'ascolto e nell'amore per l'altro, nella condivisione, nei progetti. Il romanzo segue queste tratte sofferte, le sposa in un'ideale di uguaglianza purissima che sia davvero l'esito di quel soffio finalmente incarnato. Preziosa e commovente ogni pagina, come a camminare nelle vene di uno sforzo, di un sogno nobile che può trovare attuazione, in una selva di destini sgangherati e frettolosi che restano nella lettura come solchi di memoria autentica. Lo sfondo è quello di un paesaggio sterminato, un gigantesco mondo a sé che invita e protegge con la sua silente grandezza, con le sue divinità quasi a sorvegliare ogni azione, col suo lessico di reciproco aiuto, mano tesa, promessa. Ma i venti contrari mal sopportano un quadro sociale di possibile idillio, una comunità perfetta che dia volto alla natura di un'utopia. La frana insegnerà anche questo, che si può ugualmente unire la vita all'idea senza che questa smetta di risvegliarsi sui cuscini del domani e senza che ne rinneghi il motivo di fondo, l'enorme verità etica che spinge sotto le falde, un canto che impressiona e che sorregge. Perchè quella è la direzione inevitabile, l'uguaglianza comunque, la cruna attraverso cui si deve passare, l'onda del sentimento umano e di un'anima viva che finalmente divengano traccia, civiltà di gente. Romanzo meraviglioso, mancato e imperfetto come tutte le sinfonie più riuscite, romanzo di prodigi e di errori, storia di ultimi in sella alla loro breve gloria, ma aperta lo stesso al poi, al futuro, alla scoperta e alla conferma che quello è il bene.
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