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Dettagli

1992
268 p., ill.
9788804345930

Voce della critica


recensione di Levi, G., L'Indice 1992, n.10

Henry James, in una prefazione famosa, diceva che era molto più arduo il lavoro del narratore che quello dello storico. Lo storico va a vedere com'è andata ma non affronta la terribile sfida, priva di argini e di regole, del romanziere; l'invenzione. Ed è pensando a Henry James, di cui cita esplicitamente "Il senso del passato", che Schama ha scritto questi due saggi che egli definisce di "narrativa storica", "un'opera di fantasia che racconta vicende storiche". Intanto richiama James l'ambiente bostoniano del secondo racconto. E Francis Parkman, il primo storico del Canada, uno dei personaggi del primo saggio e nipote del morto del secondo saggio, ha avuto - ma Schama non lo ricorda - un'affettuosa anche se un po' ironica recensione da parte di James ("Francis Parkman. The old Régime in Canada", 1874, in The American essays of Henry James", a cura di L. Edel, Princeton 1956, pp. 138-45). Ma di James Schama pare voler accettare e rovesciare la sfida. Checché ne pensasse il narratore americano, per lo storico esiste - dice Schama nella postfazione -un"'inquietante divario tra un avvenimento vissuto e la sua narrazione successiva". Per quanta sia la documentazione disponibile (era quella documentaria la limitazione maggiore delle possibilità dello storico secondo James, come mostra ad esempio nel racconto "In the Cage" metafora del lavoro dello storico) 'la certezza dei fatti si dissolve nelle molteplici possibilità di narrazioni diverse".
Il tema del libro è nel fondo l'incertezza sugli avvenimenti passati l'impossibilità di capire del tutto le motivazioni dei protagonisti, la stessa banalità che circonda la morte di un grande personaggio come il generale Wolfe se non è rivestita della "magniloquente menzogna che il pubblico bramava la morte al centro dell'azione" come nel quadro in cui Benjamin West voleva creare un'arte che contemporaneamente conservasse la massima fedeltà alla materia, ma le conferisse "dignità poetica attraverso il ricorso all'immaginazione". Schama vuole dunque mostrare a contrario tutta l'artificiosità della narrazione storica, fatta di catene causali rigorose, di sequenze temporali precise, di soluzioni esaustive. Perché l'invenzione dello storico è sempre all'opera, consapevolmente o inconsapevolmente: anche solo nella scelta dei documenti da utilizzare o degli episodi da tralasciare studiando e scrivendo.
Preferisco di gran lunga il primo al secondo saggio i ritratti contrapposti del pittore West e quello dello storico Francis Parkman, che narrano in modi e con scopi diversi la morte del generale, sono molto intensi, il secondo specialmente. "La morte di un uomo di Harvard" è invece più inconcludente: tutto è risolto fin dalla prima parte, assassino, motivazioni, negazione della grazia, se il lettore va avanti lungo il filo del racconto è nella speranza che capiti qualcosa di nuovo: ma nulla capiterà lungo le 200 pagine successive. Il tentativo di comporre un feuilleton su un fatto di cronaca nera prende insomma la mano a Schama, che mi pare affascinato fino a non sapersene allontanare dai testi stenografici di quel processo venduti a dispense (ne uscirono - pare di capire - tre versioni fra 1850 e 1853) e immagina il pubblico di oggi simile a quello che a Boston aveva seguito il processo con grande emozione, ma che conosceva persone, contesti, situazioni.
Il libro finisce così per essere molto distante dalle intenzioni, enunciate nella postfazione: una ricerca della verità storica che non può contentarsi dei documenti senza fornire un quadro irrealistico e stereotipato della complessità e ambiguità dello persone e degli avvenimenti reali. La mescolanza di invenzione e ricerca documentaria applicata ai due episodi mostra il carattere di divertissement senza affrontare in concreto il problema antico e colossale del rapporto fra storia e narrativa. E sarebbe poco male se l'autore non annunciasse l'interessante progetto di criticare le procedure degli storici. C'è insieme troppo e troppo poco di ricerca e di immaginazione: una ricerca documentaria insufficiente; un'invenzione minima, troppo vincolati dalle pastoie dello storico. La grande capacità di narratore che Schama aveva mostrato nei due libri già noti al pubblico italiano sulla cittadinanza in Francia e sulla società olandese del Seicento, la sua efficacia descrittiva ed evocativa di ambienti e mentalità, lasciano qui troppo spazio al gioco elegante e un po' gratuito, sia nella presentazione della molteplicità di racconti possibili nel saggio sulla morte e sulla postuma celebrazione eroica del generale Wolfe, sia nell'imitazione del romanzo nero popolare, raggelata dall'esilità delle situazioni nel racconto dell'assassinio di George Parkman da parte del professore di Harvard Webster. Si sarebbe immaginato un quadro più pieno dell'ambiente culturale intorno a Giorgio III, della tensione morale connessa con la guerra degli inglesi contro i francesi in Canada, rafforzata dalla volontà protestante di prevalere sulla colonia canadese di fondazione gesuitica e profondamente cattolica (è questo del resto ciò che ispira tante pagine di Francis Parkman), nel primo saggio. O si sarebbe immaginata una società borghese bostoniana e universitaria harvardiana di metà Ottocento più dinamica e frastagliata a far da contesto all'omicidio, nel secondo racconto. Ma tutto è stemperato in un gioco narrativo che la postfazione non vale a sollevare. E in cui per invenzione - vien detto esplicitamente - si intende poi solo l'introduzione di dialoghi e talvolta di personaggi immaginari (il soldato testimone della battaglia) coerenti col contesto.
Infine sarebbe giusto domandarsi se, indipendentemente dai suoi meriti, era un libro da tradurre. Come le molte generazioni di giovani di questo secondo dopoguerra si sono entusiasmate per cantanti americani le cui parole (ma qui prevaleva l'aspetto musicale) erano perlopiù incomprensibili, cosa il lettore italiano si troverà di fronte a un libro che parla di personaggi sconosciuti e certamente più consueti a un pubblico angloamericano, per cui Wolfe, Benjamin West, Giorgio III, Francis Parkman non siano solo nomi decontestualizzati. Un lettore che conosca queste vicende probabilmente potrà trovare un qualche gusto in questa narrazione un po' estetizzante ma riferita a un contesto culturale in grado forse di coglierne il tono insieme vanamente ironico e spaesante. Un lettore italiano troverà il libro piuttosto noioso, non saprà misurare le invenzioni e le difficili allusioni. Ne uscirà convinto - Dio non voglia - che la storiografia tradizionale vada, con tutti i suoi difetti, più al sodo e sia più divertente da leggere.

recensione di Belpoliti, M., L'Indice 1992, n.10

"Quando la vita è incorniciata nella morte, solo allora il quadro sta realmente appeso", così osserva il giovane storico Ralph Pendrel, protagonista dell'incompiuto romanzo "Il senso del passato" di Henry James, e così dovremmo ripetere al termine del libro di Simon Schama "Le molte morti del generale Wolfe". La morte occupa il posto centrale in questo racconto che sin dal titolo dichiara il suo ambiguo gioco: "Dead Certainties", ovvero "Certezze assolute", ma anche "Certezze morte": nel momento in cui la morte appone il suo sigillo alla vita ne determina la caducità e insieme l'assolutezza. Niente può più essere mutato, ma nulla potrà essere recuperato.
Il bel libro dello storico di Harvard, Simon Schama, si regge su questo piede di ballerina: inseguire le ombre per restituirle alla vita e nel contempo "dar loro onorata sepoltura nel nostro tempo nel nostro spazio", o come dice icasticamente il personaggio di James: "recuperare quanto è perduto è comunque assai simile a passare le linee del nemico per riprendersi i morti e dar loro sepoltura". Scandito in due parti -"Le molte morti del generale Wolfe" e "La morte di un uomo di Harvard"-, il libro è un gioco continuo di cornici che si aprono e si chiudono l'una dentro l'altra, sino alla cornice maggiore, quella appesa dal narratore medesimo intorno alle due storie per siglare il suo racconto.
La prima storia si apre con la narrazione in prima persona di un ignoto soldato del corpo di spedizione inglese, impegnato nel Quebec, il 13 settembre 1759 alle ore quattro del mattino, a scalare una parete rocciosa con lo scopo di sorprendere gli avversari nel loro accampamento: "Tutto merito dell'oscurità nera come la pece...", a cui si contrappone un'altra cornice, quella che contiene il racconto dell'opera che Benjamin West espone alla Royal Academy Exhibition Gallery il 29 aprile 1771: "È tutto merito della luce ". Così inizia la storia del quadro che è destinato a consacrare la morte del generale Wolfe nella battaglia che costituisce il piedistallo della sua gloria.
In poche pagine Schama ha fissato per sempre il ritratto di un militare in cui si mescolano "fissazione maniacale, depressione ed euforia, che hanno mosso tutti i più formidabili conquistatori militari"; figura manierata, Wolfe è nelle brevi pagine della "Vita del generale Wolfe" già un trapassato, pronto a entrare, per sua stessa volontà, in un quadro. Dinanzi alle truppe, radunate alla vigilia della battaglia, afferma: "le vie della gloria portano solo alla tomba ", Sul versante opposto, in perfetta simmetria, si staglia la figura meno eroica, ma non per questo meno teatrale - è infatti una commedia nera - di John Webster, professore ad Harvard, accusato dell'assassinio di un ricco e strano personaggio bostoniano: George Parkman. A far da congiunzione tra il primo grande quadro e il secondo, quello della "Morte di un uomo di Harvard", c'è il quadretto di Francis Parkman, studioso del generale Wolfe e nipote dell'assassinato.
Tra tutti i ritratti, dipinti con mano ferma e assoluto rispetto del disegno generale, quello dello storico Francis Parkman è forse il più appassionato, tanto da far supporre che in esso si celi qualcosa dell'autore.
Per non smentire le simmetrie dell'intera opera, anche questo quadro si apre con una morte - ogni sottinsieme dell'insieme generale replica nel particolare le regole che presiedono al sistema medesimo. È la morte dell'illustre membro della Massachusetts Historical Society. Paralizzato dall'artrite e dai reumatismi, Francis Parkman ha trascorso una parte della sua vita immobilizzato. L 'immobilità forzata è il risultato della folle esplorazione che Parkman ha intrapreso nel corso della sua esistenza; non esplorazione di archivi o biblioteche, ma di foreste e praterie, per ricostruire la storia del suo paese: la ricerca dell'autenticità. Lo storico come eroe? Come Wolfe, la sua vita è stata determinata dalla sua infanzia. Invece che quello di un "manierista", Schama ci consegna il ritratto di un "maniaco", in lotta prima di tutto contro le avversità, contro le foreste dell'America e contro quelle che si aprono nella sua mente.
In bilico tra follia e dedizione, tra smarrimento e senso della costruzione, lo storico bostoniano tesse un arazzo epico costruito su "dettagli di squisita fattura" che culminano, non a caso, con la consegna del generale Wolfe al suo destino di morte. La cornice del primo quadro si chiude col racconto in presa diretta della morte del generale Wolfe, in un paesaggio di nebbia e pioggia dove non si vede quasi nulla.
La storia della morte di George Parkman, che occupa la parte maggiore dell'intero libro, ha una cornice più sottile di quella dorata che racchiude la storia del generale. Inoltre, si tratta di una storia che contrappone all'impressionismo della prima, tutta imperniata su squarci improvvisi e punti di vista molteplici, un racconto apparentemente pieno, composto di nessi e passaggi quasi certi, fondato com'è sugli atti di un processo, quello intentato a John Webster, onorato professore di Harvard, accusato di aver ucciso e fatto a pezzi nel laboratorio dell'università il corpo del suo creditore. Le pagine dedicate al dibattimento giudiziale vero e proprio sono ben 64 contro le 14-20 degli altri capitoli. Se nel primo grande quadro Schama si era ricordato della tecnica della pittura ottocentesca di soggetto storico, qui il suo modello è più vicino alla detective story o, se vogliamo, al fumetto degli anni venti trenta, non senza un richiamo esplicito a Poe.
Al centro del racconto sta la figura patetica e a tratti ridicola del professor Webster, piccolo uomo e grande criminale, modesto insegnante e grande sognatore, maniacalmente coinvolto da minerali, fossili e dalla stesura del suo memoriale di difesa. Egli è un predestinato alla sconfitta, così come Wolf o Francis Parkman lo erano alla vittoria - ma anch'essi sono dei grandi sconfitti, nella loro vittoria -, ed è l'unico personaggio, se si eccettua il governatore Briggs, che muove nel lettore qualche simpatia. Ma è una simpatia oscurata dal delitto che ha commesso, un delitto che nel profilo dei testimoni e dei periti che sfilano al processo, appare nerissimo e ma niacale. Storia di una famiglia indebitata, di una università animata da uomini mediocri, di una città, Boston, che ne esce piuttosto male, quella di John Webster e George Parkman è anche la storia di un corpo lacerato, quello della vittima, e insieme di un corpo sepolto di nascosto, quello del condannato a morte.
Schama è un ottimo narratore. Aiutato dal suo materiale di ricerca e da una scrittura fortemente visiva, catturata più dalle immagini che dai movimenti del pensiero o dalla citazione documentale, sa trasformare queste due storie divaricate in un unico racconto che ha come vero protagonista il mestiere di storico, le sue fonti e i suoi metodi. La sua bravura non consiste tuttavia nella capacità di affabulare e neppure nel tono, volutamente dimesso, bensì nell'avere trovato un centro intorno a cui far ruotare il racconto. A quel centro lo scrittore ha dato il nome di morte, quasi a volerlo esorcizzare. In realtà quel centro non ha nome e, scrivendo, lo storico scopre che è immancabilmente vuoto, come il quadro che ha appeso.

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Conosci l'autore

Simon Schama

1945, Londra

Simon Schama, storico, docente di Storia e Storia dell’arte alla Columbia University, per la BBC ha realizzato un’importante serie di documentari sulla storia della Gran Bretagna e sui grandi capolavori dell’arte. Tra i suoi libri Cittadini (1989), Paesaggio e Memoria (1995), Gli occhi di Rembrandt (1999), La storia degli ebrei. In cerca delle parole. Dalle origini al 1492 (2014), La storia degli ebrei. L'appartenenza. Dal 1492 al 1900 (2019).

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