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Anno edizione: 2013
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recensione di Isnenghi, M., L'Indice 1985, n. 8
Non so se riuscirò a uniformarmi alle pratiche disciplinari - abnegazione, ascetismo, spersonalizzazione, spirito di servizio, "il santo Vero mai non tradir" - arcignamente imposte dall'"Indice" ai suoi recensori e lettori. Del resto, come avviene, la costituzione materiale di non pochi pezzi si va poi manifestando felicemente difforme dagli spiriti della vigilia. Dirò subito comunque - per fornire di una inequivocabile chiave di lettura chi legge - che la sintesi della mia valutazione su questo libro di Pier Giorgio Zunino su "L'ideologia del fascismo" si può racchiudere, nella sua forma estrema e più didascalica, in due parole: "Si, però...". E passo a illustrare i miei "sì" e i miei "però".
Materialmente il grosso volume di Zunino comprende un corpo centrale di sei capitoli (pp. 63-368) nei quali l'A. compendia per grandi temi i suoi volonterosi e pazientissimi percorsi di lettura all'interno della pubblicistica fascista, maggiore, e - specialmente - minore e minima: il senso del tempo, le categorie politiche, i rapporti tra stato e cittadino, la razza, le immagini degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica ecc.. Qui è il capitale di letture, spesso di prima mano, su un materiale disperso, svilito, ampiamente rimosso. Sono la fatica, l'onerosissima schedatura, l'inseguimento di libri, opuscoli, fogli e foglietti di autori rinomati e di accademici, grandi firme e divulgatori, dell'editoria illustre e piccina. Si vorrebbero riconoscere solo lo scrupolo e i frutti informativi di questa totale immersione conoscitiva, cosi aliena dal vedutismo e dalle visite (o rivisitazioni) sommarie. Senonché, anche qui, - nell'uso e nell'allestimento del materiale - si annida più d'una delle nostre riserve. Le preciso più avanti. Intanto, proseguendo nella presentazione della struttura data da Zunino al suo volume, osservo che esso comprende, prima di quel corpo centrale sacrificato alla Musa della Diligenza o, se si vuole, della Fotografia, una Introduzione (pp. II-62) e una Conclusione (pp. 369-96). Sono le 100 pagine - piuttosto meno che più - che Zunino riserva a se stesso per ragionare criticamente sulla ricca messe di dati raccolti, sottoporli a interpretazione, commisurarli a quelli (spesso, assai pochi) sui quali altri hanno basato il proprio approccio allo stesso tema; e magari (come è a lungo accaduto) la propria negazione pregiudiziale dell'oggetto: l'ideologia del fascismo. E qui la penna dell'autore scorre franca e sicura, forte di una accumulazione documentaria che egli conosce non essere in possesso di molti, sciogliendo interrogativi, imboccando con risolutezza la sua strada a qualcuno dei bivi cruciali della storiografia del fascismo. Ed è anche - il che non guasta - una penna che scrive bene. Niente, davvero, mentre legge con vivo interesse le prime sessanta pagine, preannuncia al lettore la monotonia mortale delle successive 300: quelle in cui l'A. - del quale non sono dunque in questione la solida conoscenza dei testi, ma la regia, la sceneggiatura, il montaggio - ha deciso di appiattirsi quasi per intero sull'oggetto del suo sforzo conoscitivo. Alla minutaglia, alla paraletteratura, alla retorica del "culturame" nazionalfascista - se posso farvi cenno - dovrei essere adùso, visti i miei trascorsi in proposito; eppure confesso che ho faticato a traversarlo quel mare, remicchiando in piena bonaccia, prima di arrivare a toccare la riva della "Conclusione"; e qui ritrovare pagine sostanziose e penetranti, giudizi, scelte interpretative, alcune delle quali - come il discorso non privo di coraggio che problematizza la vera natura del 1943, anno chiave per tutti, fascisti e antifascisti, afascisti, attendisti - atte piuttosto ad aprire nuovi interrogativi che non (come avviene per il resto) a chiudere i precedenti.
Il mio avviso è che una diversa utilizzazione del materiale avrebbe decisamente giovato all'opera e alla leggibilità e messa in circolo della tesi interpretative dell'A. Una diversa utilizzazione, cioè un diverso modo di rapportarsi ad esso. Al limite, l'edizione anastatica - programma evidentemente massimo -, ovvero una robusta antologia di testi - programma più realizzabile e concreto -, con gli apparati del caso. E poi, naturalmente, il saggio critico, non più contratto, ma ampio e disteso, cresciuto dall'interno della meticolosa conoscenza dei testi.
Dovrebbe risultare chiaro a questo punto che, qui, una parafrasi della parafrasi non è proprio possibile e che perciò tutto il blocco centrale del volume resta irriducibile alla misura della recensione, referenziale per giunta, e "oggettiva". Mi riferisco invece ai due studi - cornice. Il primo - l'Introduzione - è un'agile e succosa sintesi di storia della storiografia sul fascismo (e in particolare, sull'avere o no avuto, il fascismo, una cultura e un'ideologia). L'A. rifiuta "la consolante idea che il paese per vent'anni si sia riparato dietro un abile "doppio gioco": fascista nei gesti esteriori, antifascista nell'intimo delle coscienze". (p. 43); ritiene di avere portato, con questo libro, prove inconfutabili di come risulti inadeguata a leggere i comportamenti, i sentimenti, le opinioni degli italiani fra le due guerre, quella "chiave del nicodemismo collettivo" che è apparsa a lungo "latente" (p. 43) nei ripensamenti postfascisti dell'Italia di allora: "il nicodemismo (...) non è applicabile ai grandi numeri. Una società messa in riga e spinta a sfilare a passo di marcia finisce ben presto per smarrire 'l'arte del fingere'" (p. 44).
È facile, per me, ritrovarmi almeno sulle pregiudiziali di questa scelta interpretativa. Il problema, per l'A., è riuscire convincenti per altri. E infatti, il saggio d'apertura è in buona parte speso per diplomatizzare il conflitto con i grandi negatori a priori dell'esistenza stessa dell'oggetto - una cultura, una ideologia del fascismo -, mentre assai più lesti e parsimoniosi sono i riconoscimenti a coloro che l'idea di un fascismo - parentesi, tutto e solo rozzezza incondita, non la coltivano più. Ancora una volta Norberto Bobbio si troverà a stupirsi di essere assunto come interlocutore principe - volta a volta da citare, confutare, propiziare, rabbonire - rispetto a un terna su cui, tutto sommato, ben poco egli stesso ha scritto e la cui stessa proponibilità nega anzi in radice: la cultura fascista.
Se si chiede poi di riportare a sintesi i contenuti analitici della cultura del fascismo rastrellati nel corso della sua avventura di ricerca fra intellettuali militanti e funzionari, sarà prudente servirsi delle parole stesse dell'A. quando ne definisce il campo attraverso il gioco delle "antinomie" compresenti nella variegata miscela di un fascismo al plurale: "Limitiamoci qui a ricordare alcune antinomie chiave: passatismo contro "modernismo"; pragmatismo contro etica dei fini assoluti; radicalismo sociale contro conservatorismo, rivoluzionarismo contro stabilizzazione sociale e politica; dirigismo contro liberismo; ruralismo contro industrialismo urbano" (p. 371).
L'A., a conclusione del suo lungo viaggio nelle viscere dell'Italia fascista e fascistizzata, che "per quanto attiene specificamente alla dimensione ideologica dell'Italia tra le due guerre, si dovrà ben dire, dunque, che non tutti credettero a tutto; ma molti certamente credettero a molto, o quantomeno all'essenziale". (p. 374) Spingendosi sino a dire (ma la frase estrapolata dalla documentazione che la suffraga può far compiere ancor più salti sulle sedie di quanti l'A. abbia già, verosimilmente, messi in conto) che è nelle "piazze assolate brulicanti di folla" piuttosto che nelle "stanze avvolte dalla penombra dove operano i cenacoli clandestini" che "si incardin• l'asse della storia italiana fra il '22 e il '43". (p. 387) Aggiunge, non solo a scopo precauzionale: "Solo arrendendoci a questa verità, per molti versi indubbiamente sgradevole, saremo in grado di comprendere come lo stato fascista abbia potuto sottomettere e assorbire senza troppe dilacerazioni l'intera società civile". (p. 387)
L'ordine dei problemi, oltre che le competenze specifiche, comportano una frequentazione dei testi offerti dalla bibliografia delle scienze sociali che è quasi più intensa di quella della stessa storiografia specifica, non sempre messa a frutto, talvolta anche nel caso di lavori che sarebbero stati più congeniali agli obiettivi e all'approccio dell'A. Penso - per fare solo un esempio - all'intero settore degli studi di storia della lingua, applicati all'oratoria di Mussolini, alla retorica politica dei parlanti e degli scriventi fascisti, che è ormai fiorente in Italia. Tanto più sorprendente l'assenza, considerato che l'A. è ben consapevole di muoversi soprattutto nel campo delle parole e delle immagini - molto più che delle cose e dei fatti materiali - e dichiaratamente deciso a dare loro la massima importanza nel costituirsi dell'italiano fra le due guerre: e infatti richiama più d'una volta nel testo ed elegge addirittura a motto del volume l'espressione di Marc Bloch sulle "parole" che non sono mai separabili delle "cose".
Nelle ultime pagine del volume, Zunino apre un nuovo fronte - che a questo punto potrebbe anche rivelarsi più foriero di polemiche di quello ormai più dissodato relativo alla cultura del fascismo - quando, tirando le fila, osserva che "la crisi che conduce alla caduta del fascismo non è, alle sue origini e nella sua sostanza vitale, una crisi ideologica, ossia - andiamo fino in fondo - non è una crisi di legittimità". (p. 393) Non ci stupiremmo se su quell'"andiamo fino in fondo", per non dire della "legittimità", si sviluppassero contestazioni, da una parte sollecitate, dall'altro almeno in parte fuorvianti rispetto all'ambito di ricerca specificamente investito dalla documentazione di cui l'A. si è servito. Tant'è. Ormai è lanciato e, proprio nell'ultima pagina, va un altro passo innanzi per affermare a chiare lettere che "si potrebbe dire che nella democrazia l'Italia "sdrucciolasse", niente di più" (p. 394). Cosicché: "A quelle libertà riacquistate per caso, perché a dio Marte così era piaciuto, non avrebbero potuto non tener dietro frutti amari". (p. 394) Si tratta evidentemente del blocco di potere democristiano e dei processi di scorrimento, dal fascismo al postfascismo, che contribuiscono a condurvici. Un ultimo passo ancora e, a questo punto, nell'ultima frase, l'iperrealismo conduce a esiti allusivi e inquietanti: "Di più ancora, la consapevolezza di quanto consistente fosse il fondamento ideologico del regime e, per converso, di quanto greve e vischiosa ne fosse l'eredità, potrebbe indurre qualcuno, e forse non a torto, a riconoscere nell'Italia repubblicana la migliore delle Italie possibili". (p. 394)
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