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L' interprete dei malanni - Jhumpa Lahiri - copertina
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interprete dei malanni

Descrizione


Confessarsi a turno quello che non avevano mai osato dirsi: è il gioco scelto da Shoba e Shukumar per trascorrere le serate al buio durante una temporanea interruzione dell'energia elettrica. Dopo la morte del figlio appena nato, si evitano con abilità, lui davanti allo schermo del computer, lei nascosta dietro barricate di bozze da correggere. Shukumar scambia la momentanea vicinanza per un'occasione di riconciliazione: ma non è così. Più che una raccolta di racconti, il libro è un insieme di ricchi e densi romanzi brevi.
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Dettagli

2000
28 aprile 2000
229 p.
9788871682952
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

Disagio temporaneo

L'avviso precisava che si sarebbe trattato di un disagio temporaneo: nei cinque giorni successivi avrebbero sospeso la corrente per un'ora, a partire dalle otto di sera. Era caduta una linea elettrica durante l'ultima tormenta, i tecnici avrebbero approfittato delle serate più miti per rimetterla in sesto. I lavori avrebbero coinvolto soltanto le case della tranquilla strada alberata, a un passo dai negozi e dalla fermata del tram, dove Shoba e Shukumar abitavano da tre anni.

"Sono gentili ad avvisarci," concesse Shoba dopo aver letto l'avviso ad alta voce, rivolta più a sé che a Shukumar. Fece scivolare dalla spalla la cinghia della sua borsa di cuoio, gonfia di bozze, e la lasciò cadere nell'ingresso entrando in cucina. Portava un impermeabile blu marina sopra una tuta grigia e scarpe da tennis bianche; corrispondeva in tutto, a trentatré anni, al tipo di donna cui un tempo dichiarava di non voler somigliare.
Veniva dalla palestra. Del rossetto mirtillo restava traccia soltanto sull'orlo delle labbra, e l'ombretto era colato sotto le ciglia. Un tempo le capitava di avere quell'aspetto, pensò Shukumar, la mattina dopo una festa, una serata in un locale, quando era troppo pigra per struccarsi, troppo desiderosa di abbandonarsi nelle sue braccia.
Lasciò cadere la posta sul tavolo senza guardare, gli occhi fissi sull'avviso che teneva in mano. "Comunque dovrebbero farlo di giorno".
"Quando ci sono io, intendi", disse Shukumar. Coprì la pentola dell'agnello con un coperchio di vetro, appoggiandolo in modo da farne uscire un filo di vapore. Da gennaio lavorava in casa, cercava di finire gli ultimi capitoli della sua tesi sulle rivolte agrarie in India. "Quando iniziano i lavori?"
"Dice il diciannove marzo. È oggi, il diciannove?" Shoba si avvicinò al pannello di sughero appeso al muro vicino al frigorifero, con attaccato soltanto un calendario illustrato di William Morris. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, osservò attentamente le immagini prima di soffermarsi su numeri e giorni. Un amico aveva mandato un calendario come regalo di Natale, anche se Shoba e Shukumar non avevano festeggiato il Natale, quell'anno.
"Allora oggi", annunciò Shoba. "A proposito, hai un appuntamento dal dentista, venerdì".
Lui si passo la lingua sui denti; si era dimenticato di lavarli, quella mattina. Non era la prima volta. Non si era mosso di casa tutto il giorno. Lo stesso il giorno precedente. Più Shoba si tratteneva fuori, faceva gli straordinari e accettava nuovi incarichi, più lui desiderava restare a casa; non usciva nemmeno a ritirare la posta, a comprare il vino o la frutta nei negozi vicino alla fermata del tram.
Sei mesi prima, in settembre, Shukumar stava partecipando a un congresso a Baltimora quando Shoba era entrata in travaglio, con tre settimane di anticipo rispetto alla data prevista. Lui avrebbe rinunciato al congresso, ma lei aveva insistito; era importante per stabilire contatti, l'anno successivo sarebbe entrato nel mondo del lavoro. Aveva annotato il numero dell'albergo, l'agenda dei suoi spostamenti e i numeri dei voli, si era messa d'accordo con la sua amica Gillian per un passaggio in caso di emergenza. Quando quella mattina il taxi si era avviato verso l'aeroporto, l'aveva salutato in accappatoio, un braccio appoggiato con naturalezza sulla sommità del ventre.
Ogni volta che ripensava a quel momento, l'ultimo momento in cui aveva visto Shoba incinta, ricordava soprattutto il taxi, una station wagon rossa con le scritte in blu; enorme, in confronto alla loro automobile. Con il suo metro e ottanta d'altezza, le mani troppo grandi persino per le tasche dei jeans, Shukumar si sentiva minuscolo, sul sedile posteriore. Mentre il taxi accelerava in Bacon Street, immaginava il giorno in cui anche lui e Shoba avrebbero dovuto comprare una station wagon, per accompagnare i bambini avanti e indietro, a lezione di piano, dal dentista. Si vide al volante, con Shoba che si girava per passare il succo di frutta ai bambini. Un tempo, queste immagini di vita familiare lo avevano preoccupato, accrescendo la sua ansia di essere ancora studente a trentacinque anni. Ma quella mattina d'inizio autunno, con gli alberi ancora grevi di foglie gialle, l'immagine gli sorrise per la prima volta.
Qualcuno dell'organizzazione riuscì a trovarlo tra le tante aule identiche del centro congressi e gli porse un biglietto. Soltanto un numero di telefono, ma Shukumar capì che era l'ospedale. Quando arrivò a Boston era tutto finito. Il bambino era nato morto. Shoba giaceva a letto, addormentata, in una stanza singola talmente piccola che si faceva fatica a stare in piedi accanto a lei, in un'ala dell'ospedale che al corso per il parto non avevano visitato.

Valutazioni e recensioni

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Maunakea
Recensioni: 2/5

Non finito, debbo averlo comprato anni fa quando ero in fase accaparramento libri, adesso sono in fase, ripulitura garbage dalla libreria e quindi mi son messa a leggere quello accumulato negli anni. A vedere varie recensioni sembra che la scrittrice sia considerata una sorta di virgina woolf indiana. Sarà, personalmente la delicatezza della narrazione non mi ha detto nulla, arrivata a metà e continuando a non vedere nè sentire nulla ho deciso di mollarlo, si vede che non fa per me.

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paola del vitto
Recensioni: 4/5

"sexy",il racconto più bello. Cosa significa?"significa..amare qualcuno che non conosci",ma anche qualcosa.Un termine forse un pò troppo azzardato,ma non è, secondo voi,sexy ed eccitante conoscere cose nuove,culture e usanze diverse?!Come quando ti metti in viaggio e sei elettrizzato per quello che vedrai e succederà.Una raccolta di brevi romanzi che mi hanno fatto scoprire un altro modo di vivere,un'altra cultura.

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Voce della critica


recensioni di Nadotti, A. L'Indice del 2000, n. 09

Nata in Inghilterra da genitori indiani, Jhumpa Lahiri, oggi poco più che trentenne, vive negli Stati Uniti e costituisce, a mio avviso, uno straordinario caso di maturità letteraria. Questi suoi racconti sono tra i più belli che mi sia capitato di leggere da tempo, e ciò non perché - come suggerisce la quarta di copertina dell'edizione italiana - siano "densi romanzi brevi", bensì perché sono racconti pressoché perfetti, ai quali meritatamente è andato il Pulitzer 2000 per l'opera prima.
Con sobrietà di linguaggio, grandissima sensibilità nella descrizione di luoghi e personaggi (colpisce il gusto dei dettagli, solo apparentemente minimalista, in realtà finalizzato a connotare simiglianze e dissimiglianze) e sapiente controllo dello sviluppo narrativo, Lahiri dipinge una sorta di grande retablo il cui soggetto sembra essere il mondo contemporaneo. La struttura sempre tesa, con un alone di mistero molto particolare, i cui ingredienti stanno a metà strada fra la tradizione occidentale e quella indiana, cattura ripetutamente il lettore: quale sarà la prossima invenzione, chi saranno i personaggi, quale l'ambientazione? Pur punteggiate di luoghi (Calcutta, Londra, il Massachusetts), nomi e cose ormai noti a chi segue la produzione letteraria riconducibile alla diaspora indiana, le storie che ci racconta Lahiri non sono mai scontate, anzi, procedendo nella lettura si ricava l'impressione che l'autrice voglia far piazza pulita di luoghi comuni e stereotipi mettendo in campo l'esperienza di chi è nato e cresciuto in Occidente, e in tale spazio di mondo si muove con disinvoltura, mantenendo però con il paese d'origine un legame forte e attivo. E che voglia ribadire, ora con esplicita ironia, ora con serietà e/o malinconia, ora miscelando abilmente i due registri, la doppia origine anche della propria invenzione narrativa.
"Non sono l'unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il primo. Eppure ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo miglio percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in cui tutto questo supera la mia immaginazione", conclude il protagonista del bellissimo Il terzo e ultimo continente. Di fronte all'ordinaria straordinarietà delle vite e dei casi si ha l'impressione che lo sguardo della narratrice, frammentandosi consapevolmente (come in altri consolidati autori/trici del subcontinente) in molteplici prospettive, metta a fuoco il racconto esemplare delle inimmaginabili specularità del nostro tempo. Dove confini territoriali assurdi e insanguinati assumono, dall'altra parte del mondo, la stessa valenza delle righe nere su un televisore disturbato, e la scomparsa di un'intera famiglia in un lontano paese sfregia appena il sorriso di una zucca nella notte di Halloween (Quando veniva a cena il signor Pirzada, probabilmente autobiografico, è un racconto mirabile, forse la cosa più bella che io abbia letto su come i segni della Spartizione, a distanza di oltre mezzo secolo, si allunghino fino alla seconda generazione della diaspora indiana).
Se questa può sembrare storia di alcuni, neppure il più sedentario abitante del primo mondo avrà difficoltà a immaginare il Disagio temporaneo di un black out della società postindustriale, disagio né etnico né religioso, ma umano e universale. E nel racconto che dà titolo alla raccolta l'ironia dolente di Lahiri restituisce l'India all'India sottraendo all'Occidente il monopolio dell'esotismo turistico. Il luogo è Konarak, la guida - voce narrante è l'indiano Kapasi con la sua "imponente Ambassador bianca", e i turisti sono i signori Das ("Nati in America... nati e cresciuti in America", chiarisce con spavalderia il signor Das) con i loro bambini dai nomi smarriti, Tina, Ronny e Bobby. "Sembravano indiani, ma vestiti come stranieri": calzoncini corti, scarpe da ginnastica, berretto con visiera, macchina fotografica al collo, teleobiettivo vistoso, il signor Das chiede alla guida di rallentare per scattare fotografie dal finestrino, e naturalmente fotografa "un uomo scalzo con la testa avvolta in un turbante sporco, seduto su un carretto tirato da una coppia di buoi. Uomo e buoi erano magrissimi". Intanto l'annoiata signora Das "si dava lo smalto". Estranei a se stessi, fanno e dicono cose sbagliate, come qualunque turista, e si meravigliano delle numerose famiglie di scimmie che incontrano lungo il tragitto. "Le chiamiamo hanuman" spiega la guida. E a Hanuman, il dio-scimmia protettore dei poeti, l'indiana-inglese-americana Lahiri significativamente affida la regia della storia.
Irriducibile al modello di sviluppo occidentale, sia che la si osservi dalle rampe strette di un caseggiato popolare di Calcutta (La cura di Bibi Haldar, Boori Ma), sia che la si guardi dall'abissale distanza dei sobborghi residenziali e dei campus universitari americani (Questa casa benedetta, Sexy), l'India messa in scena da Lahiri è quella che è, un antico paese di grande bellezza, abietti compromessi e precaria modernità, le cui mostruose contraddizioni tuttavia, anziché azzerare le potenzialità degli individui, ne ridimensionano le aspettative con un inaspettato (ma per chi?) recupero di umanità. Da questo specchio neppure troppo lontano che con insistenza ci rimanda la nostra diversa immagine, e ad essa ci condanna, è difficile staccarsi. Forse per questo può succedere, come è successo a chi scrive, di leggere e rileggere più volte questi racconti. Essere separati dalla signora Sen, che scrutando le onde dell'Atlantico dice: "in certi momenti le onde assomigliavano a tanti sari appesi al filo ad asciugare", appare intollerabile quanto la solitudine cui è improvvisamente confinato il ragazzino americano prima affidato alle sue cure (Dalla signora Sen).
Le suggestive immagini e l'inglese cristallino di Lahiri sono resi efficacemente dalla traduzione di Claudia Tarolo, con un neo, quel "Partition" - "Spartizione" - reso inspiegabilmente con "Scissione" (p. 87).

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La recensione di IBS


"Prende piede l'ipotesi che abbia lavorato per un facoltoso zamindar, a oriente, e che attinga da quell'esperienza per esagerare il suo passato in modo così articolato."

Se in epoca di globalizzazione trionfa il meticciato culturale, non possiamo non restare incantati da tutta quella letteratura che rivendica le specificità nazionali, che mostra la difficoltà dell'integrazione e il desiderio di tenere saldi i legami con le proprie radici. L'India contemporanea ha saputo offrire all'Occidente romanzi di grande spessore, autori (e in particolare autrici) di forte intensità narrativa, quali Arundhati Roy o l'universalmente noto Salman Rushdie. E proprio il riferimento ad uno dei romanzi di Rusdhie (Est, Ovest) appare immediato. Tema fondante di quel romanzo è l'uniformità di alcuni miti contemporanei, la banalizzazione culturale e la superficialità che dall'opulento Occidente si è diffusa anche nel più arcaico Oriente. Per cui la salvezza può essere il restare: culture comunque divise, quella indiana e quella inglese.

In questa raccolta di racconti il tema dominante è l'urgenza di tenere viva la propria identità originaria una volta che l'integrazione sociale e culturale nel Paese d'arrivo (in questo caso gli Stati Uniti) sia avvenuta.

Quasi sempre i protagonisti sono giovani, quindi il rischio maggiore è proprio la perdita della memoria, della tradizione e l'assimilazione tout court alla nuova, travolgente realtà americana. Nulla di passatista o di romanticamente rivolto all'indietro in queste storie, quanto un perfetto equilibrio, quasi sempre armonico, di scambio e di integrazione tra la millenaria civiltà indiana e la giovane e aggressiva cultura made in Usa.

La vicende narrate però hanno un valore in sé, non cadono nell'essere strumento di una tesi, mostrano uomini e donne travagliati e tormentati dalla quotidianità del loro vivere, da sentimenti e rapporti stanchi o da passioni brucianti che si estinguono con altrettanta rapidità. Rapporti amorosi, ma anche esperienze di lavoro e di vita, ricchezza, benessere, ma anche esclusione e povertà: è l'universo degli emigrati, spesso di seconda generazione, che hanno superato l'impatto con la diversità. L'abito, il cibo, il trucco femminile, la lingua, rimangono, storia dopo storia, a documentare le radici culturali dei vari personaggi che avvertono il pericolo della totale integrazione nella generazione successiva. Nell'ultimo racconto il protagonista-narratore, che ormai vive la normale vita di un americano medio con un tranquillo lavoro, una bella casa, un figlio che studia ad Harvard, non vuole però dimenticare il difficile impatto iniziale quando, giovane bengalese, era giunto a Londra e poi era definitivamente emigrato negli Stati Uniti: emozioni, paure, speranze, entusiasmi che vorrebbe poter trasmettere al figlio. "Allora andiamo a trovarlo a Cambridge, lo portiamo a casa per il fine settimana, a mangiare il riso con le mani insieme a noi, a parlargli bengali, perché ci viene il timore che smetterà di farlo dopo la nostra morte".

Se questo è il tema che chiude la raccolta, più intimista è quello di Disagio temporaneo, il primo racconto. Una coppia è in crisi dopo un forte trauma, la morte del figlio neonato, non riesce più a parlarsi, a comunicarsi la sofferenza che ha cambiato la vita di entrambi, rendendo la donna iperattiva e rivolta verso l'esterno, e paralizzando il giovane marito, ancora studente, che ha scelto la chiusura nei confronti del mondo esterno. Per alcune serate sono costretti, dalla mancanza di energia elettrica, ad una ormai dimenticata intimità e, alla luce di qualche candela, si dicono cose taciute da tempo. Non c'è però il "lieto fine", la crisi è irreversibile. La grandezza di Jhumpa Lahiri sta proprio in questo: come non eccede mai nel "tragico" del vivere, così non si abbandona alle false soluzioni positive che oggi definiremmo "buoniste".

Esempio ne sia il racconto che dà il titolo alla raccolta. Il curioso lavoro di "mediatore linguistico" alle dipendenze di un medico, lavoro scelto per il buon stipendio ma vissuto come umiliante dal signor Kapasi, viene improvvisamente rivalutato da una giovane donna americana di origini indiane che, con marito e figli, viene accompagnata per un giro turistico proprio da Kapasi nella sua qualità di interprete. Sentendosi finalmente apprezzato nella professione è subito dominato da un turbamento sentimentale: quella donna lo attrae, sogna un contatto futuro, la desidera. Ma ben presto quella fascinazione si interrompe, il segreto che lei gli rivela gratuitamente, il malessere ozioso che gli chiede di risolvere, la scoperta della leggerezza aggressiva di lei, lo allontanano dal sogno.

La ricchezza di temi e personaggi di questo libro ne rende la lettura coinvolgente come se ogni racconto fosse un breve romanzo perfettamente coerente, di certo meritati quindi i riconoscimenti che ha avuto dalla critica internazionale e la vittoria del Premio Pulitzer.

A cura di Wuz.it

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Jhumpa Lahiri

1967, Londra

Jhumpa Lahiri è nata a LOndra da genitori bengalesi. Cresciuta negli Stati Uniti, ha vissuto a New York e attualmente si è trasferita a Roma.È membro del President's Committee on the Arts and Humanities, nominato dal Presidente Barack Obama.È autrice di: Interpreter of Maladies (1999) tradotto e pubblicato in Italia da Marcos Y Marcos con il titolo L'interprete dei malanni (2000), con il quale ha vinto nel 2000 il Pulitzer Prize for Fiction; The Namesake (L'omonimo Marcos y Marcos, 2003), da cui il film; Unaccustomed Earth (Una nuova terra, Guanda, 2008); The Lowland (2013, La moglie, Guanda), finalista al Man Booker Prize 2013 e In altre parole (Guanda, 2015). Nel 2018 Guanda ha pubblicato il suo primo romanzo scritto direttamente in italiano, Dove...

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