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tutti i romanzi di todde meritano il massimo dei voti. a prescindere. quasi senza bisogno di leggerli.
Che bello.........................
Tutto come ben introduce la copertina. Un ambiente a toni scuri, una ragazza di pelle ombrata, un viso con un'enigmatica espressione indice di pensieri nascosti, di pensieri lontani, di storie oscure. Todde prende per mano un medico imbalsamatore che, partendo dal cadavere "freddato" di una giovane ragazza ufficialmente vittima del colera, ci porta attraverso una torpida storia dai risvolti oscuri ambientata tra la fine dell'ottocento e i primi anni del "nuovo" secolo (il novecento). Temi conduttori: la miseria dell'emigrazione dall'isola, povertà economica e culturale, uno sfrenato incontrollabile desiderio d'amore d'una Femmina Assoluta. Godibile, non senza qualche passaggio oscuro.
Recensioni
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Volendo ricapitolare in una breve formula l'ultimo romanzo di Giorgio Todde, potremmo citare alcuni versi, belli di per sé, certo, ma anche vera e propria chiave di lettura, per altro già suggerita dal titolo, dei particolarissimi e trucidi fatti che il letteratissimo oculista cagliaritano ci racconta: "E quale amor non cambia / E resta immutata forma... / Una fiamma, un lampo, una freccia / che mi brucia, ferisce e fa breccia / nella cérvice mia insanguinata... / Ma quel nero è amor che non voglio, / e quel sangue è tutto il mio doglio, / è un Amor, un Amor che non cambia...". Viene da chiedersi quale e di che natura possa essere un amore che non cambia, che rimane intatto, vivo e bruciante, che resiste al tempo e agli eventi, in questo caso assai dolorosi. Domanda che Efisio Marini, protagonista del romanzo, trovatosi a mettere insieme i tasselli che compongono un'oscura vicenda, in via del tutto accidentale, si porrà incessantemente. Torna dunque l'imbalsamatore, nonché il sardo più noto di metà Ottocento, già conosciuto in Lo stato delle anime (2001), La matta bestialità (2002) e Paura e carne (2003), personaggio realmente esistito, che molto fece parlare di sé per i suoi studi sulla pietrificazione dei corpi. Proprio da un corpo pietrificato, il corpo senza importanza di una giovane donna che si crede dapprima morta di colera, ha inizio il cammino di Marini per risolvere il caso, in una Napoli di fine Ottocento, "città addestrata ai miracoli".
Attraverso la tragica storia di Restitúta, una servetta cagliaritana sbarcata a Napoli con la speranza di imprimere una svolta al proprio destino, il percorso omicida diverrà sempre più chiaro, rivelandoci un mistero già svelato, in realtà, fin dalle prime pagine: "La luce arriva in faccia alla ragazza che ha gli occhi chiusi. Chiusi perché quello che succede lo aspettava e non si è stupita di sentirsi ammazzare. Meglio così, meglio morta giustamente. Era stata un'esagerazione, senza controllo, senza misura e adesso la morte è in proporzione. L'unico modo per fermare le cose". Un percorso a ritroso nella memoria, una memoria che "intossica", che scuote e destabilizza, che rende impossibile distinguere fra chi è innocente e chi colpevole, forse perché tutti i personaggi di questa storia sono colpevoli, in un modo o nell'altro.
Un forte odore di sangue ci accompagna nella narrazione, a sostituire quello più delicato ma altrettanto pregnante di pesche che caratterizzava un altro romanzo di Todde, Ei (2004), dove ad accamparsi era ancora una volta un amore "esagerato", insostenibile, irrimediabilmente legato alla morte, ossessivo e ossessionante come il giovane Antonino del Restivo, pallido e gelato autore dei versi sopra citati, l'"esponente di una razza carnivora". Prosa calibrata ed essenziale quella di Todde, a tratti felicemente lirica, libera da fastidiosi manierismi o banali contaminazioni linguistiche cui sono tanto affezionati gli ormai troppo numerosi giallisti che, ritenendosi in qualche modo coartati dalla narrativa di genere, in preda a chissà quale complesso di inferiorità, esibiscono puntualmente imbarazzanti virtuosismi letterari. La fitta rete di analogie e di allusioni contribuisce a creare un effetto di compattezza ed essenzialità musicale, segno di una capacità espressiva che non evapora, ma si mantiene intatta, negli svaghi dell'invenzione, della fantasia smisurata e felicemente macabra di un narratore nato.
Cristina Cossu
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