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Un bel libro. Alta letteratura per un tema così delicato e pagine di fine, straordinaria profondità psicologica.
Recensioni
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Si potrebbe riassumere in poche righe il nuovo romanzo di Tahar Ben Jelloun, L'ablazione, pubblicato in Francia ad inizio 2014 e in uscita in Italia da Bompiani in occasione del Festival Dedica, parlando di ciò che racconta e che di per sé è poca cosa: un sessantenne medio borghese, abituato a vivere senza complicazioni la vita al meglio, con un pizzico di cinismo forse, ma godendo della sua professione e delle molte donne che ha e che improvvisamente, a causa di un tumore, deve sottoporsi all'asportazione chirurgica radicale della prostata, che condizionerà tutta la sua vita, minandone abitudini e comportamenti.
In realtà questo libro è molto più di questo, innanzitutto perché il suo è lo stile dell'alta letteratura, quello della sapienza nel dosare meccaniche narrative, sospensioni e riprese, quello che applica eleganza e grazia ad una trama interna che scava la vita e la distende sul piano del racconto.
Quella di Ben Jelloun è una storia che parla di assenza e di presenza, di radicamento e sradicamento, di morte e di vita. E di come siano l'una figlia dell'altra, compenetranti, indissolubili; di come il lento staccarsi dalle cose, dallo status quo esistenziale, dalle aspettative e dall'immagine di sé non corrisponda all'abbandono della vita, ma, anzi, alla prosecuzione di essa, in forma forse più inerziale e meno propulsiva ma pur sempre vita che non ci abbandona mai, in qualsiasi modo si manifesti a noi.
Prova ne è una chiusura-non chiusura che semplicemente interrompe il racconto, arrestando il suo corso con un punto fermo, ma lanciandolo in eterno su un immaginario piano inclinato che il lettore non riesce a vedere. La narrazione dei fatti è scandita da riflessioni, domande e accenni introspettivi, un dialogo allo specchio, un confronto spietato e pietosissimo tra l'immagine immutabile di sé e il materializzarsi di un corpo che non sembra appartenervi, minato dal tempo e dalla malattia.
Un romanzo che salda più culture, che all'eleganza francese delle colonie sembra unire echi di un'algida magnificenza russa anche nel tema, che ricorda Padiglione Cancro di Aleksandr Isaevič Solženicyn: quella solitudine, l'isolamento di una messa al muro, una condanna che provoca un innalzamento dello spirito che si rafforza per staccarsi dal corpo ed accettare un fatalismo inevitabile.
Nessuna concessione alla religiosità in queste pagine intrise del razionalismo occidentale di un uomo di scienza che si fa filosofo contemporaneo, rappresentante di una generazione al tramonto che difficilmente accetta che il corpo sia una porta per un “oltre” e non l'unica e finale destinazione.
Dura prova l'accettazione di un neoplatonismo che scalza l'illuminismo materico al fine unico della sopravvivenza.
Un libro stranamente pacato, che avanza sottecchi; una scrittura secca ma elegante, sincera e circoscritta, posata ma fredda come un bisturi che si insinua a tradimento nell'attesa della resa. E mentre si legge di accettazione estorta, resa incondizionata e violenta, ciò che accende L'ablazione è una voglia di riscatto, lotta e speranza.
A cura di Wuz.it
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