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Resistere, reinventarsi, essere versatili in un mondo che cambia costantemente; sono queste le parole d’ordine di un discorso che accomuna produttori, imprenditori, semplici lavoratori attanagliati da una crisi di cui non si scorge ancora la fine. Ma c’è un’Italia che intanto va perdendo pezzi da tutte le parti, quella delle grandi industrie dismesse, dei distretti produttivi che vanno scomparendo, delle tante aziende che le hanno voltato le spalle per indirizzare altrove i loro investimenti. E in quest’Italia sempre più deindustrializzata c’è tanta gente che non ce la fa, che annaspa e non riesce a stare a galla, e che vive ormai in uno stato di apnea sociale invisibile; una cruda realtà che chi di dovere molto spesso finge cinicamente di non vedere. È di quest’Italia dei vinti che Angelo Ferracuti ha voluto parlarci nel suo ultimo libro, emblematicamente intitolato Addio, per raccontare quel senso di disagio, di inadeguatezza e di angoscia esistenziale che subentra quando si rimane senza lavoro. Ferracuti sceglie un luogo tra tutti, per farne il simbolo d’una débâcle che non conosce ormai confini geografici, questo luogo è il Sulcis-Iglesiente, storica regione a sud della Sardegna che ha conosciuto tempi d’oro grazie alla fiorente attività estrattiva nelle miniere in cui trovavano lavoro migliaia di persone. Il risultato è un intenso reportage narrativo degno della migliore tradizione letteraria di impegno civile, un libro capace di restituirci la cruda immagine di un paese che sembra condannato a un inarrestabile processo d’impoverimento. Il Sulcis-Iglesiente è uno di quei luoghi paradigmatici del decadimento d’una nazione fino a qualche decennio fa tra le maggiori potenze industriali ed economiche del mondo. Immagine pregnante d’un’Italia sempre più povera, sempre meno brava e bella. (estratto dalla recensione su "Amedit")
Recensioni
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(…) la letteratura, quando fa il suo mestiere, punta lo sguardo su ciò che tentiamo di relegare nell’oblio, su ciò che nascondiamo sotto il tappeto per il timore che gli altri lo vedano e comincino a fare domande. È la rimozione, il suo campo d’indagine. Alcuni ci riescono, altri no. Ferracuti ci riesce spesso. Nei suoi libri si ha l’impressione che qualcuno spalanchi la finestra, sollevi il tappeto, fotografando tutto ciò che appare al suo sguardo, senza dare troppa importanza alle lamentele del vicinato. Sotto il tappeto del suo ultimo lavoro c’è quel che rimane di gran parte del complesso minerario sardo, ossia Carbonia, Iglesias, il Sulcis-Iglesiente, tutti luoghi dove la presenza copiosa di carbone, ferro, alluminio ha dapprima creato un’economia fondata sul lavoro duro di migliaia di minatori, per poi lasciarsi alle spalle un vuoto fatto di macerie, silenzio e disoccupazione. Ferracuti ha attraversato quel vuoto per quasi due anni, visitando i luoghi della disfatta, parlando con la gente, studiando i documentari, passando al setaccio gli archivi, i documenti, i libri, alla ricerca di storie. Da quelle storie ha ricostruito l’epica di quei luoghi e attraverso di essa, il declino di una classe politica. Per far questo, ha utilizzato lo strumento che padroneggia meglio: il reportage narrativo, un impasto che nel suo caso contiene un po’ di tutto: il romanzo, l’inchiesta, il pamphlet, la poesia, o meglio: la postura poetica. È lo stesso strumento del libro precedente, in cui raccontava l’Italia dei postini. In quelle pagine però il sentimento dominante era la tenerezza. Qui, invece, la tenerezza cede il passo alla rabbia.? Anche se quella di Ferracuti non è mai una rabbia semplice. Si tratta piuttosto di una rabbia compassata, quasi aggraziata. Una rabbia che non cede mai terreno alla semplice indignazione o all’invettiva, ma che diventa pressante man mano che si accosta all’oggetto osservato, per poi allontanarsene subito, in modo da recuperare la distanza giusta per tentare di storicizzarlo. Una rabbia pensierosa, preoccupata, costantemente in cerca di spiegazioni sul perché mai in Sardegna, più che in altri luoghi, i conti non tornino mai. Una rabbia che pone domande, senza illudersi di ricevere risposte o facili soluzioni. Nel territorio della rimozione, anche il semplice fatto di porsi delle domande, restituisce l’impressione di aver fatto un piccolo passo in avanti seppur minimo. E forse scrivere significa anche questo: ricalibrare il discorso dominante, dare il giusto peso alle cose, arieggiare le stanze, portare i tappeti altrove. Nulla di pazzesco, in fondo. Un piccolo soqquadro, ma mite, paziente, discreto, che non serve ad altro che a camminare.
Recensione di Daniele Zito
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