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Alla cieca - Claudio Magris - copertina
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Alla cieca

Descrizione


Di chi è la voce che risuona in "Alla cieca"? È certo il racconto di un recluso e di un fuggitivo. È Jorgen Jorgensen, il re d'Islanda poi condannato ai lavori forzati nell'inferno di un'altra isola, agli antipodi, Giù alla Baia. È il compagno Cippico, passato dai Lager nazisti a Goli Otok, la terribile Isola Calva dove Tito confinava i dissidenti. È Tore e Jan Jansen, Nevèra e Strijèla e i mille nomi dei partigiani e dei clandestini. È il rivoluzionario e il fondatore di città, il marinaio e il cybernauta... È anche l'argonauta nel suo viaggio infinito attraverso oceani dove s'incontrano solo l'avventura e la morte, il sangue e la violenza, in un esilio che solo a tratti s'illumina dell'amore di una donna che si chiama Maria, Marie, Mariza o Márja, e Norah e Mangawana... In questo devastante e struggente memoriale a narrarsi è l'eterno ribelle, l'ammutinato, l'eretico in balia delle onde e del buio della storia, ma anche dei suoi sogni di giustizia e della disciplina di partito. Prefazione di Eugenio Scalfari.
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Dettagli

2
2015
Tascabile
24 settembre 2015
IV-342 p., Brossura
9788811670711
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

1.

Caro Cogoi, a dire il vero non sono sicuro, anche se sono stato io a scriverlo, che nessuno possa raccontare la vita di un uomo meglio di lui stesso. Certo, quella frase ha un punto di domanda; anzi, se ricordo bene - sono passati tanti anni, un secolo, il mondo qui intorno era giovane, un'alba umida e verde, ma era già una prigione - ho scritto per prima cosa proprio quel punto interrogativo, che si trascina dietro tutto. Quando il dottor Ross mi ha incitato a stendere quelle pagine per l'annuario, mi sarebbe piaciuto - e sarebbe stato onesto - mandargli tanti fogli con un bel punto interrogativo e basta, ma non volevo essere scortese con lui, così benevolo e gentile, a differenza degli altri, e poi non era il caso di irritare uno che ti può togliere da una buona nicchia, come la redazione dell'almanacco della colonia penale, e spedirti nell'inferno di Port Arthur, a prenderti il gatto a nove code sulla schiena se solo per un attimo, sfinito da quei massi e dall'acqua gelida, ti siedi per terra.
Dunque ho messo davanti a quel punto di domanda soltanto la prima frase, anziché tutta la mia vita, mia, sua, di chissachì. La vita - diceva Pistorius, il nostro maestro di grammatica, accompagnando con gesti rotondi e pacati le citazioni latine in quella stanza tappezzata di un rosso che la sera s'incupiva e si spegneva, brace dell'infanzia che ardeva nel buio - non è una proposizione o un'asserzione, ma un'interiezione, un'interpunzione, una congiunzione, tutt'al più un avverbio. Comunque mai una delle cosiddette parti principali del discorso - «Sicuro che dicesse proprio così?» - Ah... sì, dottore, può darsi, forse non era lui a usare quest'ultima espressione, doveva essere la maestra Perich poi Perini, a Fiume, ma più tardi, molto più tardi.
Quella domanda iniziale del resto non può essere presa sul serio, perché contiene già la risaputa risposta, come le domande che si fanno ai fedeli in un sermone, alzando il tono della voce. «Chi può narrare la vita di un uomo meglio di lui stesso?» Nessuno, si capisce, sembra di sentire il mormorio della gente che risponde al predicatore. Se c'è una cosa cui ho fatto l'abitudine, sono le interrogative retoriche, fin da quando, nelle prigioni di Newgate, scrivevo i sermoni per il reverendo Blunt, che me li pagava mezzo scellino l'uno e intanto giocava a bastone con la guardia, aspettando che venissi a giocare anch'io, così si riprendeva spesso quel mezzo scellino - niente di strano, ero là dentro anche perché avevo perso tutto al gioco.
Ma almeno là, in quella cella, mentre le scrivevo davanti a quei muri lerci, ero io a formularle, quelle domande fasulle, anche se era poi il reverendo a sbraitarle dal pulpito, mentre altrove, dappertutto, prima e dopo, per anni e anni e saecula saeculorum me le hanno gridate nelle orecchie, «Dunque quel pandemonio in Islanda lo hai combinato tutto da solo, così, per amore di quella povera gente rachitica e tignosa, senza che nessuno ti desse una mano a mettere a soqquadro l'ordine dei mari di Sua Maestà, vero, allora hai sputato senza pensare che eri là in fila con gli altri ad ascoltare il discorso del nuovo comandante del penitenziario», e giù col gatto a nove code, «così non riconosci quella faccia di comunista, non l'hai mai vista e quei volantini te li sei trovati in tasca per miracolo», e giù calci e bastonate, «allora non sei una spia, un traditore venuto a sabotare, fingendo di essere un compagno, la libera Jugoslavia socialista dei lavoratori, magari sei un porco fascista italiano che vuoi riprendersi l'Istria e Fiume», e giù con la testa nel buco del cesso o a correre più svelto che puoi tra le file dei galeotti, che mentre passi davanti devono pestarti più forte che possono e urlare «Tito Partija, Tito Partija!» - ma da dove vengono queste urla, che fragore, non sento più, di chi è quest’orecchio assordato rintronato messo fuori uso, dev’essere stata una bastonata e se qualcuno l’ha data qualcuno l’ha certo presa, io o un altro.

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Steno
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Disarmante

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gianni43
Recensioni: 1/5

Il Magris saggista è interessante, il Magris narratore è inesistente. Purtroppo l'autore continua a non voler capire che la scrittura saggistica o giornalistica e quella narrativa sono diverse. Il suo modo di raccontare è freddo, inespressivo e diventa inevitabilmente noioso perchè lo scrittore (usare la parola narratore in questo caso non avrebbe senso!)non riesce a creare personaggi, situazioni, in una parola "emozioni". Se poi, pensando di essere Joyce, Magris comincia anche ad ingarbugliare la trama, a puntare su salti temporali e spaziali, le cose non possono che peggiorare.

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serena
Recensioni: 5/5

Senso di colpa,per ciò che non è stato, non ha vissuto, ma che sente addosso come un carico troppo pesante che lo schiaccia, lo atterra; coscienza estrema del sé e della storia di ciò che è stato e di ciò che sarà;viaggio nello spazio e nel tempo,immersione nei mari, negli oceani di tante esistenze; scomporsi, spezzettarsi, raccontare per vivere altre vite che non sono che un'unica vita; ricomporre i frantumi dello zaffiro, riunire le gocce di tanti mari, le storie di tanti uomini in spazi e tempi così diversi e tanto uguali; raccontarsi così opportunamente nascosto, facendo riemergere gli affetti, le persone che hanno contato, che sono sempre presenti; scrivere per raggiungere la purificazione, cancellarsi virtualmente per poter continuare a vivere.

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La recensione di IBS


“Sì, siamo stati nelle tenebre. Però, e questo lo si sentirà gridare forte nella valle di Giosafat, noi lottavamo contro la tenebra, anche se sbagliavamo talvolta la mira, mentre loro, le camicie nere e brune, creavano la tenebra che ci faceva perdere la strada.”

Due sono i colori che dominano questo straordinario romanzo, un’opera che vede inadeguati aggettivi e commenti: il nero e il rosso.

Il nero della cecità, ciò che non riusciamo a vedere con “il cannocchiale accostato all’occhio bendato” (“Per un momento non ho visto più nulla, solo un pulviscolo abbagliante che mi feriva gli occhi”), il nero e il bruno delle camicie dei fascisti e dei nazisti. Rosso il vello insanguinato, il fazzoletto legato al collo che strangola, la bandiera per la quale, ciecamente ma con coraggio e orgoglio, si può soffrire e morire.

Il processo della vita e del narrare è un continuo incrociarsi di tempi e luoghi diversi, di identità e di scelte necessarie o improvvise, che però definiscono un tipo umano particolare, lo sconfitto, il perdente, colui che è sempre dalla “parte sbagliata al momento sbagliato” della Storia, e che ha, proprio in questo, la sua epica grandezza.

L’intero romanzo è un io narrante che, in un centro d’igiene mentale, scrive al terapeuta raccontando la sua vita (o meglio le sue molteplici vite). Niente di più lontano però da un altro fondamentale romanzo del Novecento, quella Coscienza di Zeno che condivide con quest’opera solo il pretesto narrativo, l’origine biografica dell’autore e (anche se può apparire ardito) la grandezza.

L’arco temporale in cui, nelle sue varie identità, si muove il personaggio narratore, Cippico (ma anche Jorgensen), va dal 1802, anno in cui la Tasmania viene annessa come colonia penale alla Gran Bretagna, a un cruciale 1981 quando Gorbaciov pone fine all’impero sovietico, fino a giungere a questi ultimi anni, caduto il Muro, crollate le illusioni e le speranze, in cui solo la voce di un pazzo può raccontare con orgoglio una sconfitta.

Il mare poi: uno dei temi fondamentali nella poetica di Magris, “qualcosa di grande in cui tutto si tiene e che sa sempre ciò che bisogna fare”; il mare su cui passano le polene, ad aprire il passaggio agli argonauti, i bei volti impassibili, i dorsi svettanti, occhi sempre aperti con uno sguardo “attonito e dilatato” che sa scrutare “qualcosa che ai marinai è vietato e sarebbe fatale sapere”.

Quando il mare si è ritirato ha lasciato dietro di sé “porcherie e fanghiglia raggrumata e tutte le barche in secca”. Ma la nave era già “franata addosso” agli impavidi ed era la stessa che aveva spinto tanti uomini a combattere e a rischiare la vita sotto il fascismo, a subirne la persecuzione, a combattere in Spagna dove il vello si era già macchiato di sangue fraterno perché gli occhi erano all’improvviso diventati ciechi, quindi a subire il lager nazista e la morte guardata negli occhi orrendamente aperti sull’orrore di “un uomo, spaventato, terrorizzato, ma uomo”. Infine la scelta di andare laddove la bandiera rossa poteva sventolare vittoriosa: la Jugoslavia. E qui la beffa, terribile, sconvolgente, qui Goli Otok, l’Isola Calva, aspetta Cippico e tanti altri compagni, le torture e, per molti, la morte: “il peggio è quando a metterti nella fossa dei serpenti sono i tuoi”. “Ecco perché dopo Goli Otok non si sa più bene quali sono i nostri… E io?”, dice il narratore, come tanti altri sconfitti.

Goli Otok: ne aveva parlato qualche anno fa in un suo libro, rimasto sconosciuto ai più, Giacomo Scotti (Goli Otok. Italiani nel gulag di Tito, ed. Lindt), uomo di sinistra, che ha per anni cercato di raccontare l’irraccontabile e che aveva osato spezzare un silenzio imposto sì dal Partito, ma funzionale a tutti. Ora, con Magris, quel luogo si trasforma nella poesia del dolore, nel simbolo di chi ha visto lacerare ideali e speranze da “mano amica” e macchiare di sangue il vello d’oro perennemente inseguito. Forse si potrà così evitare che l’industria del turismo ne cancelli totalmente la memoria perché “le cose bisogna raccontarle continuamente se no si dimenticano”.

E se “è la morte, è il rogo, è il tumulo che narra la storia di un uomo” la sua grandezza non nasce dal successo e dalla vittoria, ma da come ha osato affrontare il gorgo, cieco o accecato, epico eroe di una sconfitta.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Claudio Magris

1939, Trieste

Scrittore, germanista e senatore (nella XII Legislatura) italiano. Ha insegnato letteratura tedesca prima presso l'Università di Torino, poi presso quella di Trieste. Impostosi giovanissimo all'attenzione della critica con Il mito Absburgico nella letteratura austriaca moderna (1963, elaborazione della tesi di laurea), è stato fra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all'interno della letteratura mitteleuropea con Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale (1971). Danubio (1986), forse il suo capolavoro, lo consacra come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei. Con questo libro vince il Premio Bagutta nel 1986 e successivamente il Premio Strega nel 1997 con il romanzo Microcosmi e il Premio Principe delle Asturie nel 2004 nella...

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