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Alla cieca - Claudio Magris - copertina
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Alla cieca

Descrizione


Nel nuovo libro dell'autore di "Danubio" e "Microcosmi" tornano i temi chiave dell'uomo nel suo rapporto con la storia, il mare, e l'avventura. E poi scenari suggestivi che passano da Londra alla Dalmazia, dall'Islanda alla Tasmania. Vicende, sentimenti e personaggi che s'imprimono nella memoria. Due secoli di storia tra racconto e riflessione, destini individuali ed epopee collettive.
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Dettagli

2005
28 aprile 2005
344 p., Brossura
9788811662174
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

1.

Caro Cogoi, a dire il vero non sono sicuro, anche se sono stato io a scriverlo, che nessuno possa raccontare la vita di un uomo meglio di lui stesso. Certo, quella frase ha un punto di domanda; anzi, se ricordo bene - sono passati tanti anni, un secolo, il mondo qui intorno era giovane, un'alba umida e verde, ma era già una prigione - ho scritto per prima cosa proprio quel punto interrogativo, che si trascina dietro tutto. Quando il dottor Ross mi ha incitato a stendere quelle pagine per l'annuario, mi sarebbe piaciuto - e sarebbe stato onesto - mandargli tanti fogli con un bel punto interrogativo e basta, ma non volevo essere scortese con lui, così benevolo e gentile, a differenza degli altri, e poi non era il caso di irritare uno che ti può togliere da una buona nicchia, come la redazione dell'almanacco della colonia penale, e spedirti nell'inferno di Port Arthur, a prenderti il gatto a nove code sulla schiena se solo per un attimo, sfinito da quei massi e dall'acqua gelida, ti siedi per terra.
Dunque ho messo davanti a quel punto di domanda soltanto la prima frase, anziché tutta la mia vita, mia, sua, di chissachì. La vita - diceva Pistorius, il nostro maestro di grammatica, accompagnando con gesti rotondi e pacati le citazioni latine in quella stanza tappezzata di un rosso che la sera s'incupiva e si spegneva, brace dell'infanzia che ardeva nel buio - non è una proposizione o un'asserzione, ma un'interiezione, un'interpunzione, una congiunzione, tutt'al più un avverbio. Comunque mai una delle cosiddette parti principali del discorso - «Sicuro che dicesse proprio così?» - Ah... sì, dottore, può darsi, forse non era lui a usare quest'ultima espressione, doveva essere la maestra Perich poi Perini, a Fiume, ma più tardi, molto più tardi.
Quella domanda iniziale del resto non può essere presa sul serio, perché contiene già la risaputa risposta, come le domande che si fanno ai fedeli in un sermone, alzando il tono della voce. «Chi può narrare la vita di un uomo meglio di lui stesso?» Nessuno, si capisce, sembra di sentire il mormorio della gente che risponde al predicatore. Se c'è una cosa cui ho fatto l'abitudine, sono le interrogative retoriche, fin da quando, nelle prigioni di Newgate, scrivevo i sermoni per il reverendo Blunt, che me li pagava mezzo scellino l'uno e intanto giocava a bastone con la guardia, aspettando che venissi a giocare anch'io, così si riprendeva spesso quel mezzo scellino - niente di strano, ero là dentro anche perché avevo perso tutto al gioco.
Ma almeno là, in quella cella, mentre le scrivevo davanti a quei muri lerci, ero io a formularle, quelle domande fasulle, anche se era poi il reverendo a sbraitarle dal pulpito, mentre altrove, dappertutto, prima e dopo, per anni e anni e saecula saeculorum me le hanno gridate nelle orecchie, «Dunque quel pandemonio in Islanda lo hai combinato tutto da solo, così, per amore di quella povera gente rachitica e tignosa, senza che nessuno ti desse una mano a mettere a soqquadro l'ordine dei mari di Sua Maestà, vero, allora hai sputato senza pensare che eri là in fila con gli altri ad ascoltare il discorso del nuovo comandante del penitenziario», e giù col gatto a nove code, «così non riconosci quella faccia di comunista, non l'hai mai vista e quei volantini te li sei trovati in tasca per miracolo», e giù calci e bastonate, «allora non sei una spia, un traditore venuto a sabotare, fingendo di essere un compagno, la libera Jugoslavia socialista dei lavoratori, magari sei un porco fascista italiano che vuoi riprendersi l'Istria e Fiume», e giù con la testa nel buco del cesso o a correre più svelto che puoi tra le file dei galeotti, che mentre passi davanti devono pestarti più forte che possono e urlare «Tito Partija, Tito Partija!» - ma da dove vengono queste urla, che fragore, non sento più, di chi è quest’orecchio assordato rintronato messo fuori uso, dev’essere stata una bastonata e se qualcuno l’ha data qualcuno l’ha certo presa, io o un altro.

Valutazioni e recensioni

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Steno
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Disarmante

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gianni43
Recensioni: 1/5

Il Magris saggista è interessante, il Magris narratore è inesistente. Purtroppo l'autore continua a non voler capire che la scrittura saggistica o giornalistica e quella narrativa sono diverse. Il suo modo di raccontare è freddo, inespressivo e diventa inevitabilmente noioso perchè lo scrittore (usare la parola narratore in questo caso non avrebbe senso!)non riesce a creare personaggi, situazioni, in una parola "emozioni". Se poi, pensando di essere Joyce, Magris comincia anche ad ingarbugliare la trama, a puntare su salti temporali e spaziali, le cose non possono che peggiorare.

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serena
Recensioni: 5/5

Senso di colpa,per ciò che non è stato, non ha vissuto, ma che sente addosso come un carico troppo pesante che lo schiaccia, lo atterra; coscienza estrema del sé e della storia di ciò che è stato e di ciò che sarà;viaggio nello spazio e nel tempo,immersione nei mari, negli oceani di tante esistenze; scomporsi, spezzettarsi, raccontare per vivere altre vite che non sono che un'unica vita; ricomporre i frantumi dello zaffiro, riunire le gocce di tanti mari, le storie di tanti uomini in spazi e tempi così diversi e tanto uguali; raccontarsi così opportunamente nascosto, facendo riemergere gli affetti, le persone che hanno contato, che sono sempre presenti; scrivere per raggiungere la purificazione, cancellarsi virtualmente per poter continuare a vivere.

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Recensioni

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Voce della critica

In uno dei racconti di Microcosmi , Claudio Magris ricorda la tragedia che si era consumata, nell'immediato dopoguerra, a Sveti Grgur o a Goli Otok, isole in cui furono internati, orrendamente maltrattati, seviziati, spesso uccisi non pochi di quegli italiani che, fidenti nel sole del comunismo che sembrava stesse spuntando oltre confine, avevano fatto il percorso inverso dei tanti che fuggivano dall'Istria ed erano andati a vivere e a lavorare a Fiume o a Pola. L' indiscussa fedeltà staliniana dei coloni del comunismo si rivelò però ben presto per loro, nella Jugoslavia di Tito che si affrancava da Mosca, una condanna e fu l'inizio di una vicenda terribile, su cui tutti, troppi ebbero interesse a tacere o a sorvolare. Alcuni degli internati dei gulag titini erano già stati "ospiti" dei lager tedeschi e provarono così sulla loro pelle i due orrori ideologici del secolo, nonché il costo di una fede tanto cieca quanto limpida. Sempre in Microcosmi, Magris rivede in Cherso e Lussino le isole dove Medea, straziata e furente amante dell'infingardo Giasone, aveva ucciso i propri figli e si era fatta complice dell'omicidio del fratello, cadendo in preda a un amore assoluto e a una passione che, anziché stringere i suoi nodi con l'amato greco, aveva finito per ribadire la sua estraneità, la sua lontananza culturale da lui e dalla civiltà cui aspirava di appartenere sposandolo.
Sono questi due dei temi e fili che ritornano e si sviluppano in Alla cieca , intrecciati ad altri, in parte a essi collegati (i puri combattenti del comunismo come Salvatore Cippico avevano portato la loro religione rivoluzionaria, prima che in Jugoslavia, nella guerra di Spagna), in gran parte nuovi e diversi, come la storia di Jorgen Jorgensen, l'avventuriero proclamatosi re (per qualche settimana) d'Islanda nel primo Ottocento, stravagante principe ultrariformatore, finito ai lavori forzati in un lager o gulag antelitteram , quello allestito per criminali comuni e prigionieri politici dagli inglesi in Tasmania.
Solo che quei temi che in Microcosmi erano svolti, per così dire, in chiaro, qui, fasciati e attraversati dall'altro e più sviluppato dello pseudoré rivoluzionario, si vedono in negativo. Li svolge la voce delle vittime, degli eroi puri e sconfitti che hanno condiviso il male nel miraggio di un bene in cui generosamente credevano, che hanno conosciuto l'abominio del dolore subito e inflitto, l'umiliazione e l'orrore della morte ricevuta e data con uguale ferocia. Il viaggio degli Argonauti è raccontato, per così dire, dal punto di vista di Medea e non di Giasone; dal buio e dalla fornace della passione e non dalla luce cruda e fredda del calcolo e della ragione. Se, nel libro, ci sono molte donne anti Medea, che sacrificano solo se stesse per amore degli altri (Maria, Mariza), gli uomini, ancorché zelatori di civiltà ipoteticamente più giuste e più umane, sono delle Medee che travolgono tutti, ovviamente anche se stessi, nello slancio di purezza e generosa dedizione alla causa per cui militano.
Per raccontare dalla faccia nascosta, di morte e di dolore, questa storia, Magris ha dovuto cedere la parola a un io narrante che è somma e garbuglio di infinite esistenze sacrificate sull'altare di un'idea, di uomini così determinati a compiere il bene cui si sono votati da sacrificare anche quelli (quelle) che li hanno più amati. Chi racconta è perciò indistintamente Cippico e Jorgensen, in una narrazione che emerge dal profondo, dalle viscere tormentose di chi ha creduto in un bene e fatto in suo nome anche il male e moltissimo ne ha patito e sofferto. Il libro ha il taglio (stilistico, sintattico) della confessione disordinata e caotica di un internato (per malattie mentali) a un medico che lo ascolta e sembra guardarlo e giudicarlo con gli occhi freddi e calmi di un commissario politico.
Come sempre in Magris, dati e figure storiche si mescolano a fantasie e riflessioni soggettive: ma qui non c'è la voce pacata del narratore, con le sue ironie e i suoi affettuosi trasporti (questa voce si è semmai rifugiata nei personaggi femminili, che sono fatti tacere ben presto, abbandonati da chi li ama per altre e più torbide passioni), a illimpidire le macchie di buio e dolore. Alla cieca è la bella polena che va a fondo, è un mondo sognato che travolge quello reale di cui non ha e da cui non riceve pietà. Non concede riposi, né consolazioni, neppure con la scrittura (molto esposta, frantumata, plurima), neppure con la trama (intricata, caotica, ossessiva), che intrappolano e angosciano il lettore senza respiro. Il proposito di ordine e chiarezza del narratore folle non chiarisce "il garbuglio degli eventi", lascia incoerenti e imprevedibili le coordinate di spazio e tempo in cui la storia si svolge (tra Islanda, Inghilterra, Trieste, Jugoslavia, Australia; tra Ottocento postnapoleonico, Novecento delle guerre e terzo millennio della manipolazione genetica, tanto "tutto è presente, tutto accade oggi"). Neppure la lettura rovesciata delle Argonautiche così care all'autore di Microcosmi (e si veda qui il cap. 77) offre una spiegazione plausibile del modo in cui "vanno le cose". Perché non c'è spiegazione e c'è solo il generoso e cieco andare, il viaggio ripetuto senza fine.
È un Magris più desolato, meno solare e più cupo, quello che esce da una scommessa formale per lui nuova, sfociato, al di là di ogni residua misura mistura saggistico-narrativa (o viceversa), in un delta stilistico labirintico e tentacolare, che segue la mappa di un'epica infera, in cui i referti della cultura e della storia sono centrifugati dentro un intenso, vorticoso progetto fantastico e artistico, intriso di malinconia e tristezza, a tratti di spossata disperanza. In questo macrocosmo di utopia e rabbia, di male e desiderio, le luci (le delicate e trepide Maria, Mariza, perfino la sfondatissima Norah delle ultime pagine), infatti, affondano, e le passioni rivelano solo brutalità, violenza, inganno, anche se l'autore continua a difendere, a esaltare la nobiltà di averle alte e potenti, di crederci, di pensare che una fede possa smuovere le montagne.
Alla cieca è il libro più impervio fin qui scritto da Magris. Non ha il passo lento e tranquillo, sicuro e leggero di Danubio o di Microcosmi . È più, mi sembra, sull'altro versante della sua scrittura (parzialmente sperimentato nel Conde o nell' Altro mare ), ma un versante ora tutto e solo in ombra, risalito senza posa, ogni volta riaffrontato e abbandonato, ricominciato e interrotto, come nel cammino di un Dante che salga il colle e si volti indietro a ogni bestia che incontra, perché nessun Virgilio (nessun Apollonio Rodio) può venire a soccorrerlo, e la sua Beatrice si è perduta.
Restano però e raggiungono un'intensità forse mai toccata prima la vocazione fabulatrice dello scrittore, la sua fiducia nel racconto, la caparbietà conoscitiva del suo pensiero narrante, la resistenza delle parole ("in generale ricordo più le parole che le cose, anzi ricordo solo parole, ma quelle benissimo"), la residua speranza nel romanzo-lapide ("le lapidi sono romanzi concentrati") su cui resti inciso per sempre il segno dei tanti travolti dall'amore, dalla passione, dalla cieca fede, dai flutti insanguinati della storia.

Vittorio Coletti

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La recensione di IBS

Salvatore Cippico, militante italiano del partito comunista, imprigionato da Tito nell'Isola Nuda, ma anche Jorgen Jorgensen, avventuriero dell'Ottocento che divenne re d'Islanda e fu condannato ai lavori forzati in un'isola agli antipodi, oppure uno dei molti partigiani, prigionieri, marinai o clandestini che rievocano le loro vicende di viaggio, guerre e avventure. Non è facile stabilire quale sia il protagonista del nuovo libro di Claudio Magris, un romanzo corale di grande respiro nelle cui pagine si intrecciano le voci di personaggi diversi, legati da un destino comune ma lontani nel tempo e nello spazio. Alla cieca è un racconto dalla trama fitta e intricata sul cui sfondo campeggia il mare, elemento di unione e continuità.
La narrazione esordisce con le parole di un uomo ricoverato in manicomio, che rivela la sua identità e il suo passato al dottore che lo ha in cura. Dice di essere Salvatore Cippico, impiegato nei primi anni del Novecento nei cantieri di Monfalcone, licenziato per attività antifascista, militante del partito comunista clandestino e combattente nella guerra civile spagnola, poi militare in Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale, e dopo l'8 settembre partigiano. Deportato a Dachau, nel 1947 emigra in Jugoslavia per costruire il socialismo e, in seguito alla rottura tra Tito e Stalin, viene rinchiuso nel gulag di Goli Otok nell'isola Nuda, dove erano fatti prigionieri i dissidenti, infine emigra in Australia all'inizio degli anni Cinquanta. La figura dolente di Cippico riassume in sé stesso gli orrori della storia, le violenze e i lutti indotti da uomini contro altri uomini, ma rappresenta anche la lotta di chi combatte per i propri sogni di giustizia e i propri ideali politici. Col procedere del racconto i contorni di questo personaggi finiscono per sfumare e per confondersi con quelli di un uomo vissuto un secolo prima. Si tratta di Jorgen Jorgensen, uomo d'azione e d'avventura dell'Ottocento, che fondò città e si autoproclamò re di Islanda, finendo per essere condannato ai lavori forzati a Hobart Down in Tasmania. Magris ripercorre le sue peripezie di navigatore, novello Giasone tra i mari del mondo, che simboleggiano quelle di tutti gli eterni argonauti, ribelli e ammutinati in balia delle onde e persi nelle pieghe infinite della storia. Sono memoriali dolenti quelli del compagno Cippico, del re Jorgensen e delle innumerevoli altre declinazioni della loro personalità, illuminati solo dal ricordo dell'amore di una donna che di volta in volta cambia nome: Maria, Marie, Mariza, Norah…
L'autore di Danubio e Microcosmi propone un romanzo di memoria e confessione personale, che scava nelle profondità dell'animo umano, un racconto in cui i piani temporali sono continuamente sovrapposti e in cui la voce narrante si moltiplica in una serie di voci e di vite diverse da cui scaturisce un'epopea continuamente cancellata e riscritta che mescola storia e mito, fantasmi e ricordo.

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Conosci l'autore

Claudio Magris

1939, Trieste

Scrittore, germanista e senatore (nella XII Legislatura) italiano. Ha insegnato letteratura tedesca prima presso l'Università di Torino, poi presso quella di Trieste. Impostosi giovanissimo all'attenzione della critica con Il mito Absburgico nella letteratura austriaca moderna (1963, elaborazione della tesi di laurea), è stato fra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all'interno della letteratura mitteleuropea con Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale (1971). Danubio (1986), forse il suo capolavoro, lo consacra come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei. Con questo libro vince il Premio Bagutta nel 1986 e successivamente il Premio Strega nel 1997 con il romanzo Microcosmi e il Premio Principe delle Asturie nel 2004 nella...

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