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Anno edizione: 2016
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Nel settembre del 1943 Giacomo Debenedetti si rifugia con la famiglia a Cortona. È l’inizio di quelli che de?finirà i “mesi nazisti”.? Tra le incursioni aeree,? l’arrivo degli sfollati? bisognosi di tutto, il ?terrore del tifo e delle rappresaglie tedesche. In queste condizioni estreme, si dedica, per la prima e l’ultima volta nella sua vita, alla traduzione di un testo di Proust, Un amore di Swann, che definirà “la prima prova sintetica e per così dire in vitro di una certa fenomenologia dell’amore che Proust ha identificata ed esplorata”. Debenedetti è stato tra i primi a scrivere su Proust in Italia, nel 1925 e nel 1928. La sua scelta di tradurre, quindici anni dopo, Un amore di Swann, è, dunque, una reimmersione nelle pagine di quel “maestro e fratello maggiore” che aveva mutato il corso della sua giovinezza, spezzando il sortilegio dell’estetismo di Wagner e di D’Annunzio e schiudendogli l’orizzonte di una problematica modernità. Ma per il Debenedetti degli anni quaranta il ritorno a Proust è anche la scoperta di un nuovo Proust, ossessivamente attento ai segni della crudeltà e della morte. È quanto emerge dallo splendido saggio Rileggere Proust, del 1946, che quasi certamente della traduzione di Un amore di Swann avrebbe dovuto costituire la prefazione. (…) A questa nuova visione dell’opera proustiana Debenedetti è arrivato attraverso il confronto con Un amore di Swann, affrontato, ha scritto Mario Lavagetto, “passo passo, dall’interno, con l’occhio miope e sollecito del traduttore”. La sua traduzione, che oggi Elliot ripropone opportunamente, è la testimonianza di questa svolta critica di grande portata. Ma non è soltanto questo. Pur presentando, come la traduzione press’a poco coeva di Natalia Ginzburg, qualche errore dovuto alla mancanza di strumenti lessicali adeguati, è un’opera letteraria a sé di grande interesse, una riscrittura del fraseggiare proustiano che si sforza di salvaguardarne le peculiarità ma trasponendolo in un italiano ricco di risonanze auliche e rimandi letterari. Giustamente la curatrice Daria Galateria ricorda a questo proposito i lavori di Viviana Agostini-Ouafi. Questa studiosa ha mostrato quanto in ogni riga della traduzione di Debenedetti sia presente la tradizione italiana, dalle origini al Novecento, tanto nel lessico quanto nel ritmo. Il lettore comune non percepisce, naturalmente, tutti gli echi evidenziati dal lavoro della specialista, ma avverte la stupefacente ricchezza della lingua di Debenedetti e la singolarità dell’incontro tra la sua rigorosa passione proustiana e il suo linguaggio nutrito di memorie dantesche e leopardiane.
Recensione di Mariolina Bertini
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