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Antifascismo e società italiana (1926-1940) - Leonardo Rapone - copertina
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1999
2 dicembre 2003
247 p.
9788840005553

Voce della critica


recensioni di Gervasoni, M. L'Indice del 1999, n. 10

Con il tanto vociare udito negli ultimi anni a proposito di "legittimità della Repubblica" e di "esaurimento del paradigma antifascista", si sentiva il bisogno di un lavoro che fornisse una panoramica al tempo stesso agile ed esaustiva della oggi tanto criticata storiografia sull'antifascismo. Compito riuscito a Rapone, autore di un'antologia delle voci più acute che dopo la caduta del fascismo si sono interrogate sulle origini, il decorso e lo spegnersi del fenomeno totalitario in Italia. Se da un lato troviamo ospitate le pagine delle diverse generazioni della storiografia sull'antifascismo, dall'altro l'aspetto più appetibile del volume sta forse nella scelta di pagine di memorialistica: da quelle comme toujours lucide e penetranti di Giorgio Amendola allo sconsolato tono pascaliano di Arturo Carlo Jemolo, fino a quelle, ricche e dense di spunti, per chi volesse cimentarsi in una storia intellettuale dell'antifascismo, di Giuliana Benzoni. Seguono quindi le pagine più note di Vittorini, Zangrandi e Calamandrei.

Ben lungi dal semplificare il dibattito storiografico sull'antifascismo, Rapone mostra i punti di convergenza tra scuole di pensiero storiografico che oggi ci vorrebbero far credere del tutto opposte. Studiosi entrati nel mondo scientifico dietro a Renzo De Felice (qui Simona Colarizi, Pier Giorgio Zunino, per certi versi lo stesso Rapone) si trovano più spesso a collimare con le conclusioni di un Guido Quazza, considerato dai corifei del tardo defelicismo il sostenitore più schematico della cosiddetta "vulgata antifascista". Vero è, come dimostra tutto il volume, che non più di "antifascismo" si dovrebbe parlare, ma piuttosto di "antifascismi". Da qui la necessità di approcci duttili, che nel racconto storiografico, se non elidono, almeno smorzano le differenze di "scuole". Questi antifascismi non vanno solo spartiti per appartenenze politiche, ma per collocazione geografica, per appartenenze temporali, per sensibilità culturali, per passioni quotidiane. Le stesse posizioni "nicodemitiche" di chi preferì all'esilio la permanenza in Italia e l'azione tra le pieghe del regime acquistano oggi nuova importanza, ponendosi da una prospettiva che si vorrebbe dire di "storia culturale dell'antifascismo". Una storia cioè degli immaginari sociali, delle rappresentazioni culturali, della vita quotidiana, dei sentimenti di attori storici la cui soglia di antifascismo era sempre mobile, diafana, a volte quasi impercettibile. Per ora la storiografia italiana sull'argomento, ad eccezione dei lavori, pur assai diversi tra loro, di De Luna e di Zunino, sembra aver preferito un approccio classico di storia politica o di storia sociale. Ma solo lo sguardo agli immaginari può cercare di uscire da molte delle aporie che la tradizionale storiografia sull'antifascismo si è trovata ad affrontare.

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