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Argomenti strettamente famigliari. Lettere dal carcere (1935-1940) - Massimo Mila - copertina
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Argomenti strettamente famigliari. Lettere dal carcere (1935-1940)
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Descrizione


La personale esperienza carceraria di Massimo Mila è consegnata in queste lettere alla madre, nel riuscito tentativo di creare un ponte tra il dentro e il fuori: una sorta di zattera su cui si carica tutto il fardello accumulato nelle lunghe ore di inazione. Più di altri compagni di carcere (Foa, Bauer, Rossi, Giua), l'universo che le lettere di Mila dischiudono è privato, personale, poco incline a occuparsi delle cose del mondo: specchio del carattere di un uomo che "è abituato a vivere molto di più di ciò che ha dentro di sé, che di quanto è al di fuori", e che quindi "non è così sensibile ai mutamenti esteriori della vita come lo è chi è abituato a stimare sopra tutto i beni esterni".
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Dettagli

1999
22 giugno 1999
750 p.
9788806150624

Voce della critica


recensioni di Cavaglion, A. L'Indice del 1999, n. 12

"Ci sarebbe solo il tasto della mia 'giovanile inesperienza' che è uno dei due o tre tasti dove, a toccarmi, suono falso, ossia irrimediabilmente diverso dalla comune opinione". Alla madre, che cercava di farsi una ragione del suo arresto, in una lettera del 29 luglio 1935 (era stato arrestato da poco, il 15 maggio dello stesso anno), Massimo Mila dichiara subito quale sarà il suo atteggiamento di inflessibilità durante la detenzione e svela un aspetto del suo carattere essenziale per comprendere il futuro itinerario politico: "Le mie idee bislacche me le tengo e non ci tengo niente affatto a vederle condivise, e rispetto profondamente le idee altrui. C'è infatti una cosa sola che mi dispiace di più che esser catechizzato: ed è il catechizzare altrui".
L'imponente corrispondenza, per lo più formata di lettere alla madre, Clelia Carena (1885-1976), è un corpus di estremo interesse, non solo, come è ovvio, per la biografia del grande storico della musica. Nato a Torino il 14 agosto 1910 Mila fu per la prima volta arrestato - aveva poco più di diciotto anni - a Torino con altri allievi di Umberto Cosmo per aver scritto, ma non spedito, una lettera di solidarietà a Benedetto Croce dopo il discorso tenuto al Senato contro la Conciliazione.
Mila collaborò al movimento di Giustizia e Libertà fin dal suo sorgere e, dopo il processo a Bauer e Rossi del 1930 e l'espatrio di Garosci, attraversò più volte la frontiera, per tenere i contatti con i fuoriusciti: "Totalmente incapace di pensiero politico", racconterà molti anni più tardi, "io lì dentro facevo 'il corriere della droga'. Mettevo a disposizione di G.L. le mie sole capacità sicure: quelle di alpinista, che mi permettevano di attraversare il confine, d'estate e d'inverno, per itinerari insoliti, dove non c'era pericolo d'incontrare la milizia confinaria".
Questo lavoro continuò dopo l'arresto di Ginzburg nel 1934 e l'espatrio clandestino di Renzo Giua. "I nostri gruppi", racconterà in una più tarda testimonianza, "rappresentavano la prosa, direi la burocrazia, dell'antifascismo; noi non sparavamo bombe, non incendiavamo cinematografi, non bruciavamo niente, nemmeno una piccola evasione, niente, proprio terra, terra. (...) Pare incredibile che per questo bisognasse rischiare la galera, ma era proprio così".
Arrestato nuovamente il 15 maggio 1935 per delazione di Dino Segre (Pitigrilli), fu processato al Tribunale Speciale insieme con Foa, Michele Giua, Vindice Cavallero, Alfredo e Giannotto Perelli e alcuni altri. Condannato a sette anni fu liberato il 6 marzo 1940.
Questo carteggio è innanzitutto importante perché rivela aspetti poco conosciuti di una personalità costruita non senza difficoltà, per l'assenza del padre, e venuta irrobustendosi per effetto di una volontà che si può ben dire alfieriana (separata dagli anni venti, ai tempi della detenzione del figlio, la madre già conviveva con un altro uomo, il "Giors" di queste lettere). Il libro offre poi la possibilità di accedere, in tutta la sua grezza vitalità, a un laboratorio spumeggiante per idee e contenuti, ciò che ne fa qualcosa di paragonabile ai quaderni gramsciani. Una volta resosi conto che i famigliari tutti, pur nella loro commovente generosità, non riuscivano a mettersi il cuore in pace per quella lunga e forzata separazione, lentamente, ma sempre più insistentemente, Mila restringe al minimo le informazioni personali e chiede alla madre di trascrivere per lui su apposito taccuino poesie, schede di lavoro, riflessioni etico-filosofiche: il suo, dice scherzosamente, Carnet de balles.
E sia detto di sfuggita: questo dell'umorismo "alla Campanile" è uno degli ingredienti che l'epistolario mette a nudo; dagli scritti giornalistici degli anni quaranta e cinquanta già si poteva immaginare che i classici dell'umorismo fossero stati una lettura formativa. Ora l'ammiratore della prosa graffiante di Mila avrà modo di constatare che i nomi giusti (Campanile, Soldati, naturalmente Dickens) vengono scoperti e letti nel posto, il carcere, che per definizione potremmo pensare sbagliato. Non era invece così, data la gioia di "spremere la vita" tipica di Mila e dei suoi illustri concellini (la stessa adorabile ironia dei "pupazzetti" disegnati da Ernesto Rossi rivive in una infinita serie di doppi sensi allusivi, fra cui, i più ricorrenti, per ovvie ragioni censorie, i "post-triboli", ossia le "tribolazioni postali" cui erano sottoposti i reclusi).
Due presenze rassicuranti, in diverso modo, danno solidità all'umorismo di Mila: l'uso ironico di Dante e la sapienza iconoclasta del dialetto. Come Primo Levi, Mila appartiene a una generazione di autori torinesi che sapeva maneggiare con maestria sia la Commedia (soprattutto l'Inferno), sia il dialetto, "levigato dai millenni come l'alveo dei ghiacciai". I due elementi vanno di pari passo, e a spiegarli credo non basti ricordare, come di solito si fa, la lezione, pure importante (soprattutto per Mila) di Augusto Monti. Dante e il dialetto sono elementi fondamentali per comprendere in profondità questo carteggio, che esigerebbe da italianisti e studiosi di dialettologia un commento a parte. Senza cattiveria nei confronti del lavoro, per altro impeccabile, del curatore, si segnala per intanto un errore di trascrizione che penso avrebbe divertito Mila. A pagina 221 l'espressione "parole non ciappulero" non può corrispondere a una forma dialettale per "pettegolezzi". È Virgilio ("parole non c'appulcro"), nel canto degli avari e prodighi (Inf. VII, 60).
Gli appunti talora si distendono in vere lezioni impartite alla madre - e qui sopraggiungono le prime sorprese. Difficile dare conto in breve spazio della vastità degli interessi (Joyce, Céline, Proust, la Woolf solo per fare qualche nome). Una prima osservazione generale s'impone: nel quinquennio trascorso in carcere la musica non si configura come l'interesse precipuo. Prima di venire arrestato, Mila, redattore della "Rassegna Musicale", aveva già collaborato alla prima edizione del Maggio fiorentino e pubblicato la monografia su Verdi (1933), ma non riteneva affatto che la musicologia avrebbe appagato la propria fame di sapere. Come per molti antifascisti in carcere, o al confino, è con la storia della storiografia di Croce che s'ingaggia un corpo a corpo. Mila si colloca a metà strada fra il concretismo salveminiano di Rossi e il crocianesimo puro degli altri intellettuali di Regina Coli. Ciò che non lo convince è soprattutto la questione dell'"eccessivo storicismo" (vi è una lettera estremamente chiara del 2 novembre 1939), vale a dire la preoccupazione che lo storicismo, insuperabile per ciò che concerne il passato, estenda al presente "il rispetto di tutti i fatti compiuti e di tutte le autorità costituite, imponendo all'individuo l'inerzia e la rinuncia, soffocando ogni aspirazione di bene e di rinnovamento, con la ragione conservatrice del s'è sempre fatto così". Come non manca di sottolineare Pavone nell'introduzione, si trova qui implicito il ragionamento che porterà alla scelta resistenziale altri partigiani piemontesi partiti da sponde crociane e poi, non senza tormenti, approdati a Giustizia e Libertà.
Le letture del Risorgimento (Omodeo, ma anche molta storiografia piemontese di fine secolo) sono a tal punto predominanti da estendere il processo di identificazione anche alle madri di "quegli" esuli, di "quei" perseguitati politici. E vi erano meno piagnistei nella madre di Mazzini e dei mazziniani - si sfoga Mila -, dando stabilità al confronto - che è un vero e proprio topos - fra le prigioni fasciste e le prigioni austriache.

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