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Arruina. Una favola oscura - Francesco Iannone - copertina
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Arruina. Una favola oscura

Descrizione


Una favola oscura che si rifà alla tradizione fiabesca meridionale.

«Questa affascinante "favola oscura" è scrittura allo stato puro, una cascata inarrestabile di figure poetiche, barocche, surreali che investono il lettore a un ritmo vertiginoso»Piergiorgio Paterlini, Robinson

C'era una volta un paese in cui gorgogliavano i torrenti. Nel paese c'è una donna di mille anni che allatta bambini morti riesumati dalle ossa, un poeta che parla una lingua aliena, una vecchia con il latte nelle pupille, un contadino che in realtà è un cavallo, un matto che pesca lische di pesce dalla bocca di una tigre. C'è una terra piena di sterchi e pietraie, e chi vi cammina incontra presto la morte. C'è una città, che da questa terra non si può vedere, dove streghe chiamate Nerissime da millenni dissanguano i bambini e inghiottono acque acide da una fonte che le rende immortali. E c'è una bambina, un gracile corpuscolo di carne e sangue, di spirito e saliva, e nella bambina germoglia una maledizione antica: la sua nascita prosciugherà le acque della fonte mettendo in pericolo la vita delle Nerissime; solo la sua morte potrà garantire la sopravvivenza del male. Così, nottetempo, le streghe la rapiscono dal letto, e i disperati abitanti del paese, scortando i genitori della bambina, decidono di attraversare le asprezze della terra per salvarla. "Arruina", opera d'esordio di Francesco Iannone, è una favola oscura che si rifà alla tradizione fiabesca meridionale, un romanzo che echeggia, intrecciandoli nel racconto di un'epopea inaudita, i traumi e le penombre delle fabule medievali, inquietanti e allegoriche, riscrivendole nella lingua del contemporaneo, in una storia in cui l'impossibile divora a ogni passo la realtà.

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Dettagli

2019
28 marzo 2019
156 p., Rilegato
9788842824428

Valutazioni e recensioni

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Giovanna
Recensioni: 4/5

Una lettura scorrevole, molto piacevole e perturbante.

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Voce della critica

Sembra che alcuni romanzi siano delle invocazioni agli dei o proprio degli esorcismi per degli indefiniti misfatti compiuti dagli umani. Sarà per questo che la loro oscurità, almeno a una prima lettura, le stesse tenebre nelle quali da sempre brancolano gli esseri bipedi che abitano questo mondo, viene a cercare di sanare e riscattare con quella sorta di incantesimo che è una preghiera o una poesia i nostri peccati e a gettare un fascio di luce sulla nostra ignoranza. Ogni preghiera, come ogni poesia, opera una sorta di sospensione dalle nostre terrigne faccende, dando una prospettiva insolita, in alcuni casi inquietante e orrorifica a ciò che ci si para di fronte. È allora, se si accetta questo paragone preghiera-letteratura, che si può parlare di romanzo gotico, weird, new weird, etc., giusto per orientarsi fra certi cunicoli bui che scaturiscono da certi tipi di scrittura.

Un romanzo come Arruina (155 pagine, 20 euro) di Francesco Iannone, qui al suo esordio in prosa, con Il Saggiatore, dopo già consolidate esperienze poetiche, forse ha bisogno di una lettura con delle lenti bifocali, e magari anche di più letture, in modo da adattare il lettore alla distanza e alla vicinanza a un testo tanto straniante e magmatico, che sembra respirare, ansimare dello stesso dolore del mondo abitato dai protagonisti, ectoplasmatiche creature da sogno eppure pulsanti di sangue, umori e piaghe in questa tenebrosa vicenda. È il tono, la cifra stilistica, la materia scritta che crea il mondo, come nei più grandi affabulatori. Viene in mente la sfrangiata prosa trasognata di Pizzuto o l’eleganza barocca di Bufalino, per non dimenticare i Cunti di Giambattista Basile, solo per citare alcuni dei riferimenti anche solo geograficamente più vicini al narratore campano, il tutto virato a un gusto dell’orrido e del grottesco funzionale alla tonalità del romanzo. Non si spiegano altrimenti frammenti come il seguente che sembrano avere a che fare più con il bizzarro e il raccapricciante che con la licenza poetica: «Il buio è un fecaloma fermo nella strettoia del retto».

Una prosa ibridata a un linguaggio ditirambico, fatto di picchi melodici e dissonanze, aforistico e episodico, debitore all’oralità di fiabe e leggende, magari alcune le stesse di quelle scandagliate dal Calvino delle Fiabe italiane, la monumentale opera di raccolta di gran parte della nostra tradizione favolistica fra Otto e Novecento commissionata da Einaudi allo scrittore delle Città invisibili. In un’epoca letteraria nella quale fra romanzi-saggi, romanzi-reportage, autobiografie, autofiction etc., dove l’ibridazione sembra farla da padrone, Arruina parla il linguaggio della poesia e forse indica una nuova e possibile strada al genere romanzo. La commistione tra linguaggio poetico e prosa, crea un denso ibrido, palpitante e onirico, in un’altrimenti quasi banale trama da fantasy nella quale una bambina viene rapita e i genitori, con il concorso di una sequela di esseri dolenti e strampalati, vengono guidati nella sua ricerca fino alla mitica città di Roccagloriosa dove è custodita da delle streghe cattive, «Le Nerissime che alitano sui cuori inseminando un vermaio nel cavo dei toraci». La bambina denominata significativamente la Sperduta, la cui nascita ha causato il prosciugamento delle sorgenti e trasformato i fiumi in delle piaghe riarse, viene rapita dalle Nerissime, come vaticinato dalle vecchie di un paese metafisicamente indefinito, ma nel quale si possono riconoscere alcuni di quei paesaggi aspri e mangiati dal sole del nostro sud, afflitti «dalle fiacche disarmonie dei venti meridionali». Sono quelle vecchie che in una sorta di Annunciazione horror profetizzano che la bambina che nascerà «avrà prodezze di fata e gobbe di mostro, nascerà e il sangue del suo parto turberà la fonte che disseta le Nerissime». Il duplice andamento direzionale del plot del romanzo, nascita della Sperduta e conseguente prosciugamento delle fonti, morte della bambina per opera delle Nerissime e possibilità della loro vita, infatti se la bambina muore le sorgenti ritorneranno a stillare acqua, sembra poter dar vita a una lettura allegorica dell’intero romanzo. Acqua e fuoco, come in un rigurgito degli elementi sembrano essere funzionali a una possibile lettura ancorata al reale e che in tal caso troverebbe un riscontro nella tragica vicenda della frana di Sarno del 5 maggio 1998, dalla quale si può immaginare dedotto il titolo stesso, quando «La montagna fa il dispetto e con un morso stacca un pezzo e te lo sputa», evento che fa la comparsa come dal niente nelle parole dell’O’Mpasturato, un altro dei freak presenti all’interno, un essere metà uomo e metà cavallo con un ago conficcato nel cervello, simbolicamente il ricordo della strage dove ha perso l’intera famiglia.

Ma sarebbe riduttivo legare Arruina a un qualche evento storico, perché «la realtà non è l’intero» e «perché la verità non si descrive, perché una storia non si racconta, ma avviene». L’opera di Iannone si dipana come una fiaba raccontata per esorcizzare le forze delle tenebre, in un alternarsi di linguaggio rituale e filastrocche, sciarade e indovinelli, fra l’ esoterico e il dialettale, l’orrido e il sublime, fino a monologhi interiori e frammenti di lettere d’amore immaginarie, qualcosa che sicuramente può apparire in alcuni casi come un mero esercizio di stile se si dimentica la sua più ampia valenza simbolica e allegorica, questa una possibile chiave di lettura di questa favola oscura, come reca il sottotitolo in frontespizio. Arruina di Iannone, può essere letto come un viaggio nella psiche, all’interno di segrete forze di cui non siamo padroni e dei corpi che abitano questi antri oscuri. Corpi dilaniati, corpi lacerati, distrutti, piagati, perché vivere e l’atto di nascere stesso è una mutilazione, ci viene detto: dal grembo materno e dal palpito universale si crea una separazione; la Sperduta ne è l’esemplificazione; piaga e cura; una sempiterna mutazione che prelude a una rinascita. E allora il romanzo lascia intravedere anche una trama nel suo scorrimento quasi da thriller con la ricerca da parte dei genitori della Sperduta, «la bambina magica», colei che «ha fermato il flusso dell’acqua con la sua nascita», una sorta di nemesi sotto le sembianze di un essere deforme, una dea riparatrice dei guasti del mondo che «quando nacque aveva le ciglia lunghe, la pancia gonfia, un geroglifico di rughe sul collo».

La Sperduta rivive nel ricordo dei vari avvistamenti che di lei si hanno da parte dei vari personaggi e figure che sembrano uscite da un romanzo di Volodine e che i due genitori incontrano nel loro cammino verso Roccagloriosa: il Poeta Antico che vive in una spelonca con l’archetipica e moribonda «Grande madre», ascoltando massime diffuse via radio del tipo «I “concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce»; La Briganta, così chiamata perché «da giovane sollevava mareggiate e ribaltava mondi», qualcosa a metà fra una madonna laica e una Moira, la quale auspica che la Sperduta non venga ritrovata e sembra essere la testimone privilegiata dell’uccisione dei bambini, perché la crudeltà del creato con la sua raffinatezza ha pensato solo a questo, alla distruzione della vita che sboccia, alla corruzione dell’innocenza; La Sciangata che a tutti ha dato amore senza riceverne, una specie di Bocca di Rosa di De Andrè in versione gotica. Tutte figure accompagnate dalla costante presenza delle Ianare, delle streghe reiette che hanno assunto le sembianze di cinghiali, scacciate dal regno delle Nerissime e che solo per fare loro un dispetto condurranno i due genitori a Roccagloriosa al cospetto della Sperduta. Confraternite di streghe e altre streghe in combutta o conflitto con altre confraternite di streghe che ricordano per certi versi le madri di Suspiria, custodi di segreti ancestrali e garanti della loro stessa esistenza. L’elemento stregonesco e l’eterno e tenebroso femmineo, quel qualcosa che simbolicamente può essere accostato alla vita stessa, è in effetti un aspetto molto presente nel romanzo di Iannone, così come l’infanzia con le sue ancestrali paure, come quando i bambini pensano che sotto la culla vi sia una belva feroce che voglia sbranarli e allora piangono per invocare aiuto. I bambini cresciuti magari ci scrivono sopra un libro su quel mondo fatato e tremendo dal quale l’autore nella poetica e potente epigrafe al romanzo posta nella pagina dei ringraziamenti ammette aver tratto ispirazione per la sua opera: «gli abbandoni nei vortici dei gorghi dell’infanzia».

Se la capacità che può avere un romanzo di parlare a territori sconosciuti dell’anima, o della psiche se si preferisce, è uno dei meriti da poter ascrivere a un’opera letteraria, la stessa cosa che al cinema accade in molti film di Bergman, la favola oscura di Iannone sicuramente di meriti ne ha molti. Il suo stile ne determina il contenuto, con una scrittura avvolgente e visionaria, come in un brano musicale dove armonia e melodia si incastrano alla perfezione. Una lettura ipnotica, narcotizzante, che pure non abdica a una sua trama, che è quella di una sorta di caccia al tesoro fino a dover raggiungere Roccagloriosa per ritrovare  la Sperduta «che ora è un faro bianco, ha la secchezza della saliva delle rondini in inverno», lì dove può entrare «solo chi ha un miracolo da mostrare», prima del liberatorio capitolo finale che ricorda per certi versi la sequenza all’inizio e alla fine di Velluto blu di David Lynch, quella con l’orecchio nascosto nell’erba del giardino, capitolo che non può che intitolarsi Risveglio, che è un po’ la sensazione che si ha accomiatandosi da questo romanzo.

Recensione di Simone Bachechi

 

 

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