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Arte e pietà nella Chiesa tridentina
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Arte e pietà nella Chiesa tridentina -  Paolo Prodi - copertina
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Arte e pietà nella Chiesa tridentina

Descrizione


Il volume è in larga parte centrato sull'opera del cardinale Gabriele Paleotti, che con un suo celebre trattato pose con forza il problema dell'aderenza dell'arte alla nuova spiritualità tridentina. La Roma papale, già avviata agli splendori della propria autocelebrazione, respinse tuttavia la rigorosa precettistica di Paleotti. Due posizioni inconciliabili che nell'arte figurativa conducono da una parte alla quotidianità sofferta di Caravaggio e dall'altra all'esaltazione atemporale del divino e delle sue manifestazioni nel barocco trionfante.
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Dettagli

2014
30 aprile 2014
291 p., Brossura
9788815251107
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Indice

Avvertenza
Introduzione. Storia, natura e pietà
I. Ricerche sulla teorica della arti figurative nella riforma cattolica
Appendice prima
Appendice seconda
Appendice terza
II. Postfazione alla «Ricerca sulla teorica delle arti figurative nella riforma cattolica»
III. Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi e la cultura a Bologna nel secondo Cinquecento
IV. Vecchi appunti e nuove riflessioni su Carlo Sigonio
V. La cornice e il quadro: il concilio di Trento e la musica
Nota ai testi
Indice dei nomi

Voce della critica

  Sulla copertina l'editore, accogliendo una suggestione dell'autore, ha riprodotto la Madonna dei pellegrini di Caravaggio: l'artista violento e maledetto, in odore di eresia, si affaccia qui come un devoto allievo della spiritualità lombarda di Federico Borromeo e di quella dell'Oratorio di San Filippo Neri. Ecco un esempio concreto di che cosa l'autore intenda per "pietà", termine vaporoso e inafferrabile da quando don Giuseppe De Luca ne fece la bandiera di un'impresa di vasto respiro della cultura cattolica. Il volume è il frutto più recente ma non ultimo di una piccola collana di libri che l'autore ha intitolato "Percorsi di ricerca" e che escono a ritmo regolare e continuo da alcuni anni: un caso di longue durée nella ricerca da parte di uno studioso che, già ammirevole per quantità e originalità di studi, da qualche anno approfitta del suo passaggio nella categoria degli emeriti per riflettere sulle piste del proprio lavoro. Da diversi anni Paolo Prodi ha ripreso programmaticamente a rileggersi e a riaprire sentieri intravisti in scritti minori degli anni passati. Un vino vecchio, dice lui: non sarà inacidito, potrà ancora trovare posto negli otri nuovi della ricerca corrente? L'immagine evangelica del vino e degli otri è rovesciata e trasferita nella cantina di un avaro contadino preoccupato della commerciabilità di una botte messa da parte da troppo tempo. Nel caso presente il vino vecchio è quello degli studi dell'autore su pittura, musica e chiesa tridentina pubblicati nel corso di più di mezzo secolo, numerosi e ricchi di suggestioni e di scoperte. E bene ha fatto l'autore a riproporre tra gli altri lo studio sul Concilio di Trento e la musica, di non facile reperibilità. Tutti gli altri ruotano intorno al primo e più importante, quello del 1962 sul trattato (incompiuto) di Gabriele Paleotti sulla pittura. Un saggio tutt'altro che dimenticato, va pur detto. Dopo la prima apparizione nell'Archivio italiano per la storia della pietà è stato poi ristampato, tradotto e continua a essere oggetto di un vivo interesse negli studi storici non solo italiani. I lettori sanno bene di cosa si tratta: il progetto di Gabriele Paleotti (ricostruito da Prodi con una bella ricerca e una ricca esplorazione delle fonti) fu quello di correggere gli abusi nell'uso delle immagini sacre, attuando nella sua diocesi il decreto del Concilio di Trento. Quel vescovo nelle immagini dipinte vedeva ancora, come Gregorio Magno, il "libro popolare" per eccellenza destinato a tutti "huomini, donne, nobili, ignobili, ricchi, poveri, dotti, indotti". Secondo Paleotti, per adempiere alla sua funzione il pittore aveva il dovere di essere fedele alla verità e di rappresentare la verità dei fatti e dei personaggi in modo da "eccitare lo spirito et la divotione". Prodi mostrò allora quali stimoli fossero venuti a Paleotti dall'ambiente culturale e artistico bolognese e da personaggi come lo storico Carlo Sigonio e il naturalista Ulisse Aldrovandi, che furono i primi lettori dell'opera mentre era in gestazione. Fu l'apertura di un orizzonte nuovo, nel quadro di una storia dell'arte dominata allora ancor più di oggi dal mondo romano e dalla committenza papale e cardinalizia (su cui è tornato ancora di recente Roberto Zapperi, uno dei più attenti e severi interlocutori di Prodi, col libro Die Päpste und ihre Maler von Raffael bis Tiziano, appena uscito dall'editore Beck). Paleotti e Sigonio fecero arrivare indirettamente il consiglio di "seguire la verità dell'historia" anche a Scipione Pulzone, il pittore dell'Unzione della Madonna per la cappella di famiglia di monsignor Bandini. Di quel consiglio Scipione Pulzone, il campione di quella pittura devota della Controriforma che Federico Zeri definì l'"arte senza tempo" non ne fece niente. Ma, come osserva Prodi, lo scritto di Paleotti non fu solo il segno di una preoccupazione di vescovo per la retta educazione religiosa del popolo. Nacque dal dialogo con l'alta cultura, col "realismo storico-biblico" del Sigonio e con quello naturalistico dell'Aldrovandi e influenzò in parte la cultura pittorica della scuola bolognese. Tornando sull'argomento nella postfazione alla ristampa del saggio del 1984, Prodi propose un bilancio "terminale" della ricerca come esito della sua riflessione sul mondo religioso italiano del secondo Cinquecento: qui sottolineò il finale fallimento del progetto di "riforma cattolica" di Paleotti. I tempi e la chiesa romana andavano in altra direzione e il vecchio Paleotti dovette ripiegare sulla proposta di creare un "indice" delle immagini sul modello dell'Index librorum prohibitorum. Un intervento d'autorità, poliziesco e repressivo, che sostituì l'approccio ispirato a una normatività di stampo tridentino del primo scritto. Del resto, le vicende di Sigonio e di Aldrovandi a cui Prodi si richiama in saggi minori qui raccolti mostrano che non era facile fondarsi sulla verità (quella della storia o quella della natura) in tempi di Controriforma e di Inquisizione. Con queste due ultime parole abbiamo introdotto di soppiatto un paio di otri vecchi e comunque poco amati da Prodi: che del resto è sempre stato coerente nel diffidare di quanto di cultura liberale e anticlericale, di laicistico e filoprotestante si è incistato in quelle parole. La sua diffidenza è ben visibile nella stessa selettività della letteratura storiografica a cui fa riferimento. Non ci sarebbe bisogno di dire che Prodi è uno storico seriamente e profondamente cattolico, di un cattolicesimo diverso da quello sociologico consueto in Italia, se non fosse che lui stesso ci tiene a ricordarlo: si legga il disegno del suo percorso intellettuale proposto nell'ampia introduzione. Vi incontriamo l'omaggio dell' allievo a maestri come monsignor Hubert Jedin e don Giuseppe De Luca e non vi si dimentica il paterno incoraggiamento ricevuto da Delio Cantimori. Da questa tradizione Prodi ha accolto, riformulato e fatto sue in una inquieta e continua rielaborazione le definizioni dell'epoca di cui è specialista, quella del periodo da Savonarola al Concilio di Trento e agli esiti di lunga durata del cosiddetto tridentinismo. Dopo il concetto storiografico di Riforma cattolica ha poi ripreso dalla storiografia tedesca il termine di Disciplinamento sociale: e qui approda al concetto di early modern Catholicism proposto dallo storico gesuita Charles O'Malley. Un concetto che ha sicuramente il vantaggio di accantonare tutti i conflitti precedenti e di aprire gli orizzonti ampi e non facilmente definibili di quella cosiddetta modernità verso la quale la chiesa cattolica ha spiegato le sue recenti vele. E così anche l'interclassista storia della pietà, inventata da un grande organizzatore di cultura come monsignor Giuseppe De Luca per conciliare ogni frattura e ogni differenza adottando nientemeno che il punto di vista di Dio, può svolgere una sua funzione in una storiografia cattolica che non trova più davanti a sé gli avversari di un tempo. Ma sarebbe fuorviante insistere su quel tanto di presupposti ideologici che traspare in Prodi come in ogni storico dalla predilezione per uno o un altro termine o concetto storiografico. Al di là degli schemi generali, Prodi ha sempre rivendicato quello che è il suo indiscutibile merito: la capacità di aprire nuove piste di ricerca, svelando aspetti importanti ma trascurati di una storia ricchissima, spesso mortificata da chi non sa tenere a freno quello che Cantimori definì il "furibondo cavallo ideologico". E questo assicura all'opera sua una ancor lunga freschezza.   Adriano Prosperi

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