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Il godimento del lettore? Chiedete a Meli
Signori, qui si parla di letteratura. Non di gialli sciapi e improbabili, di lagne generazionali, di storielle con o sui social network, di idee già sentite, di mondi fin troppo frequentati, di luoghi comuni. Qui siamo in presenza di uno scrittore vero, giudizio non ancora conclamato non si sa bene perché; probabilmente non presenzia a salotti televisivi, letterari o del bel mondo che conta, se ne starà rintanato alla periferia dell’impero a scrivere, fa poche pubbliche relazioni all’interno dei giri giusti, nemmeno spende due spiccioli per farsi fare un buon numero di foto dignitose e in posa, basta dare un’occhiata a Google Immagini. Gli scrittori veri creano mondi, non rimestano nel già scritto o, se lo fanno, sono così abili che non ce ne accorgiamo: anche qualcosa di vecchio o di già visto ce lo fanno vedere con occhi nuovi, con sguardo non convenzionale, magari da punti di vista che non ci sogneremmo nemmeno. A questo novero appartiene Isidoro Meli, che col suo secondo romanzo, ancor più del felice debutto, dimostra di avere qualcosa da dire, fuori dal coro dei più.
Meli ha scritto un romanzo che trabocca di letteratura e di altre istanze e ritmi (storia, cinema, musica) carico di personaggi, in cui autore e lettori non perdono il filo. Ci porta indietro nel tempo di quasi 160 anni, raccontandoci un contesto che nella peggiore delle ipotesi conosciamo dai libri di scuola, ma ce lo fa scoprire gradualmente con gli occhi dei vinti, non dei vincitori. La spedizione dei Mille, con Giuseppe Garibaldi in testa, per dire, andò di traverso a parecchia gente. E nel suo romanzo Attìa e la guerra dei gobbi. Imprese et mirabilie di un eroe siciliano in difesa della sua terra invasa dai barbari (301 pagine, 17,50 euro), pubblicato da Frassinelli come il precedente La mafia mi rende nervoso, Meli immagina che i borbonici palermitani provino a impedire all’eroe dei due mondi di mettere in pratica quello che – la conquista del meridione – tornerà utile ai gobbi (i Savoia sono ribattezzati col dispregiativo rifilato agli juventini da mezza Italia). Per fermare Garibaldi, si pensa, è necessario neutralizzarlo, colpendolo nel punto debole, Anita. Ecco perché si organizza una controimpresa, «missione segretissima», il rapimento a Caprera di Anita, per mettere alle strette il generale e farlo tornare sui suoi passi. La missione è affidata a un gruppo sgangherato, i rivoli delle storie picaresche che si affastellano è il naturale effetto delle conseguenze.
Questo pirotecnico romanzo sprizza energia e dalle sue pagine affiora ironia pura. Guardandosi intorno, non c’è molto del genere in giro, specialmente entro i nostri confini. Leggendolo si ride. Ed è un bene, perché si abbattano i cliché. In Italia soprattutto, per essere presi in considerazione, come scrittori, per essere apprezzati e considerati intelligenti bisogna essere seri, seriosi o depressi. Sufficienza, al massimo trattenuta indulgenza, è destinata a chi batte altre strade. Con un felice registro multilinguistico (fra racconto orale, licenze grammaticali e contaminazioni linguistiche), e con un dosaggio abbondante di grottesco, Meli e il suo principale “socio”, Nello, il narratore morto (cantastorie capace di leggere nei pensieri, in vita), mettono a bordo di un’imbarcazione malridotta un gruppetto di quattro uomini; nel diario di uno di loro, il soldato semplice Salvatore Paradiso, vengono presentati gli altri tre, «tre individui poco raccomandabili: un omone soprannominato U’ Panc, che a parte la stazza pare essere il più bonario; un giovine criaturo estremamente ciarliero e dalla pelle di un orribile colore viola, che ho inteso chiamarsi Attìa; et il famigerato terribile Andrea Foti u’ Muzziaturi. Forse non è la compagnia più appropriata per svolgere con solerzia un incarico sì delicato, ma in fondo chi può dirlo? Lo sa solo Dio. E Dio tiene le sue opinioni per sé, il più delle volte. Io posso dirlo. Senza essere Dio e ignorando la sua opinione». Panc è un quasi innocuo gigante, originario di Bronte, ghiotto di pistacchi, Attìa è un ladruncolo smemorato, Andrea Foti u’ Muzziaturi, peggio, un assassino; e Salvatore, infaticabile sciupafemmine di origini napoletane, arruolatosi come esaudimento di una promessa fatta al padre. Il generale Francesco Landi, apparentemente scrupoloso e osservante borbonico, è l’ideatore della traversata da Palermo a Caprera…
In mare o sulla terraferma, tra paradossi e fantasia sfrenata, tra concessioni al pulp e allo splatter, Meli scrive un romanzo magari meno siciliano del precedente e di quanto ci si potrebbe aspettare (le peripezie dei suoi antieroi li porteranno in ben altri luoghi,a gozzovigliare piuttosto che a deviare il corso della storia…), ma in una cornice che gli concede ampia libertà. Ne gode principalmente il lettore, alle prese con ripetuti elementi di sorpresa, con risate di cuore, con una lotta senza quartiere all’ipocrisia che domina la storiografia di ogni colore. Passate parola.
Recensione di Micol Treves
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