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Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi - Alfonso Maria Iacono - copertina
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Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi - Alfonso Maria Iacono - copertina
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Descrizione


Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi. Kant definì minorità lo stato in cui si è incapaci di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. Attribuì la permanenza nello stato di minorità, una volta che si producano le condizioni per uscirne, alla pigrizia e alla vita, cioè alla mancanza di volontà. Ma è sufficiente la volontà? A più di due secoli di distanza, vi sono molte ragioni per dubitarne. Certo, è sì questione di volontà, ma vi è anche un desiderio di restare nella minorità, un bisogno di mantenere la propria sicurezza fino alla rinuncia dell'autonomia. Come il protagonista del racconto di Kafka, uscendo dalla nostra tana ci soffermiamo a contemplarla dall'esterno. Ma accade spesso che non vogliamo uscire dalla tana o che, come gli uomini incatenati della caverna di Platone, non ci accorgiamo che essa è una prigione. La nascita della filosofia dalla meraviglia, dichiarata da Platone e da Aristotele, e il ruolo del perturbante, proposto da Freud, non esprimono altro che due tra i diversi modi della capacità di guardare con altri occhi la condizione in cui ci troviamo. Non è detto che ci" ci permetta di uscire dalla minorità e ci assicuri l'autonomia, ma è un passaggio necessario per conoscere.

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Dettagli

2000
28 agosto 2000
176 p.
9788807102967

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pasquale cosentino
Recensioni: 5/5

Tra i 20 euro meglio spesi della mia vita...forse urterà chi crede che tutto quello che deve essere pensato e detto lo abbiano già pensato e detto alla Scuola di Francoforte, o in qualsiasi altro fortilizio dove la rassicurante ripetizione sia più utile e più gradita di ogni sofferto lavoro sui concetti e su se stessi...

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francesco moscardi
Recensioni: 1/5

Venti euro buttati via... non c'e' una riga di pensiero filosofico originale. Non vale la pena di finir di leggere nemmeno il primo capitolo. Attualita' degli argomenti trattati e' pari a zero.

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Voce della critica


recensioni di Rigotti, F. L'Indice del 2000, n. 12

Nel famoso scritto Risposta alla domanda: che cos`è l'illuminismo? pubblicato nel 1784, Kant lo definisce come "l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso". Quando si commenta questo passo, l'accento cade quasi sempre sulle nozioni di minorità (Unmündigkeit, scrive Kant) e di volontà (è a se stesso infatti, secondo il filosofo, che l'uomo deve imputare la possibilità o meno di riscattarsi). Alfonso M. Iacono invece, in questo affascinante studio, cambia le regole del gioco e mette l'accento piuttosto sulla nozione di uscita, Ausgang. Anzi, sul momento dell'uscita, sul gesto, sulla fenomenologia dell'uscita. A pensarci bene, per avere un'uscita c'è bisogno di un dentro e di un fuori, di un posto in cui si è e di modi e ragioni con i quali e per le quali se ne esce. Proviamo a seguire Iacono. Che comincia con l'indicarci alcuni autori. Foucault per esempio. Foucault nota che il punto di vista dell'uscita suggerisce che "il mettersi alle spalle un mondo o un'età conta assai di più del mondo o dell'età che ci attende (...) Mettere l'accento sull'uscita è come porre in rilievo un'epoché, una sospensione, accompagnata da una sorta di smarrimento (...) l'uscita è una decisione che si apre alla libertà, alla potenzialità e alla possibilità". Così capiamo che l'illuminismo non è necessariamente ed esclusivamente un andare verso: l'illuminismo è soprattutto un venire da, un uscire fuori.
Un altro autore illuminante - e poi c'è chi lo vuole oscuro - è Kafka. Iacono ci fa rileggere Relazione per un'Accademia, la storia di una scimmia che diventa uomo e che racconta il suo processo di umanizzazione, con l'idea dell'Ausgang in testa. Chiusa in una gabbia strettissima, la scimmia si rende conto - narra Kafka - che sarebbe presto morta oppure che sarebbe diventata facile preda da ammaestrare. La scimmia non trova vie d'uscita. E poiché non poteva vivere senza almeno una via d'uscita decide di fare l'unica cosa logica: smettere di essere scimmia e diventare uomo. Se Kant avesse letto il racconto di Kafka avrebbe sicuramente commentato che quella non era un'uscita autonoma e volontaria dalla minorità ma solo un'assimilazione al mondo che voleva opprimerla. La scimmia ha raggiunto uno stadio di falsa libertà perché continua di fatto a essere soggetta al dominio di chi l'ha costretta a mimetizzarsi e ad assimilarsi ai suoi parametri. E questo è un modo molto interessante di guardare al problema del dominio, termine di gran moda nella filosofia politica normativa soprattutto nella sua variante repubblicana.
Il problema del dominio, ci viene ricordato, non è il problema del potere: esistono relazioni di potere che sono legittime, che sono giochi strategici o trasmissioni di sapere, di tecniche, di dati, da parte di chi possiede l'autorità per farlo nei confronti del neofita. Esiste poi il dominio, che è la sottomissione ad autorità arbitrarie e inutili, che oggi ti trattano bene e domani magari ti brutalizzano, ti licenziano, ti danno un brutto voto, ti umiliano. E queste sono cose che Foucault diceva e scriveva vent'anni prima di Pettit.
Iacono per parte sua cerca di farci capire che il dominio fa di tutto per apparirci come potere legittimo: e lo fa col tipo di argomento presentato come l'argomento di Trasimaco (dalla Repubblica di Platone): quello che dice che il giusto è "l'utile del più forte". Non cediamo alla tentazione di applicare questa formula alla politica nostrana di inizio millennio. Cerchiamo invece di capire le differenze tra potere e dominio, tra giustizia e consenso; cerchiamo di renderci conto di quanto la pratica del sospetto e l'arte del diffidare siano importanti per smascherare i legami della giustizia con il potere, proprio quelli che ci nascondono l'uscita dalla minorità.
Supponiamo infine di averla trovata, la famosa uscita, e supponiamo anche di essere dotati della volontà kantiana. Come la mettiamo, suggerisce Iacono, col bisogno di sicurezza? Con la paura della nuova condizione che ci aspetta fuori? Uscire fa paura, ricorda l'autore. Abbandonare il luogo familiare e sicuro, foss'anche una prigione o una tana, suscita angosce e timori. Ancora Kafka lo ricorda, questa volta in La tana, il suo ultimo racconto. In fondo il dominio è attraente e rassicurante anche per chi lo subisce. Tanto più che i passaggi, nelle nostre società deritualizzate, non sono più confortati dal rito, che aveva proprio lo scopo di rafforzare e rassicurare chi varcava la soglia tra il vecchio e il nuovo. L'uscita, il cambiamento, la metamorfosi fanno paura ed è umano e giusto che sia così.
Forse Kant, per queste paure ed esitazioni, ci avrebbe accusato di viltà, di "incapacità di usare l'intelletto senza la guida di un altro". Un secolo e mezzo di psicoanalisi e di marxismo hanno almeno messo in dubbio l'idea che la possibilità di salvarsi dipenda unicamente dalla volontà del salvando. Penso a quelli che non l'hanno capito, penso a recenti volontà di potenza che credono di poter smuovere le montagne con la forza di volontà e dichiarano di essere guariti dal cancro perché hanno voluto vincere il male. E quanti uomini e donne prima e dopo avrebbero voluto e vorranno vincere anche loro, disperatamente, per sé e per i propri cari, e non ci riescono? Salvarsi non è solo una scelta individuale, come vuol far credere questa retorica della volontà da quattro soldi.

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