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La si potrebbe definire una "storia della violenza nel Mezzogiorno d'Italia" prima e dopo l'Unificazione. L'Autore infatti parte dal 1798-99, quando i Borboni, con l'aiuto di Nelson, ripresero il potere abbattendo la repubblica Napoletana e la sua classe dirigente illuminista: da allora, fino alla fine del Regno 60 anni dopo, la violenza è parte integrante della lotta per il potere: il ricorso ai briganti e ai facinorosi nelle campagne, da parte di nobili in declino e borghesi alla conquista del potere e delle terre; nelle città dove l'ordine pubblico si esplica col sistematico ricorso a bande di malviventi che inesorabilmente passano da strumento passivo a strumento in proprio, con una propria politica della violenza e arriviamo quindi alla camorra e alla mafia (o "maffia", come per molto tempo si è scritto). Da richiamare particolarmente le considerazioni sull'origine della camorra da parte di autori come Scialoja, Villari e Nisco a p. 50: i primi due a farla derivare dalla collaborazione strategica col potere borbonico, il terzo a collocarla nella setta dei calderari, ancora una volta strumento di polizia del ministro Canosa per infiltrare e distruggere la Carboneria, negli anni 20 dell'800. Infine si giunge all'utilizzo sistematico dei violenti più organizzati per controllare l'ordine pubblico e colpire i liberali nell'ultimo periodo borbonico con Salvatore Maniscalco. Nel periodo risorgimentale il ricorso ai violenti è utile sia ai patrioti sia ai borbonici come massa di manovra. I metodi dscutibili diventano poi prassi nel primo periodo liberale, quando prefetti, generali e alti funzionari ricorrono all'illegalità poliziesca per garantire l'ordine politico moderato. A fine secolo il caso Notarbartolo mette in evidenza una maturità di rapporti fra mafia e politica che richiama l'oggi. Insomma, Ciconte ci consegna un'indagine ad ampio raggio, acuta, interessante e inquietante.
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