Quel che rende Caos arabo un libro diverso dagli altri usciti sulla scia degli eventi che hanno scosso il mondo arabo è il fatto che nasce e si compone in tutte le sue parti, introduzione esclusa, molti mesi prima che Mohamed Bouazizi desse fuoco a se stesso e alla miccia delle rivoluzioni. Caos arabo nasce infatti dalla volontà di Riccardo Cristiano, dal 1990 al 2000 inviato speciale della Rai in Terra Santa e da allora malato di "mal di Medioriente", di rendere fruibile al pubblico italiano parte delle inchieste e degli articoli giornalistici che partecipano al premio per la libertà di stampa annualmente devoluto dalla Fondazione Samir Kassir di Beirut. La decisione di Cristiano si deve a ben più di un motivo, l'ultimo dei quali sembra essere la pura divulgazione. La prima molla è il desiderio di rendere giustizia a una categoria professionale, la sua, che si ostina a operare con competenza in paesi in cui − lo stesso Samir Kassir ne è triste esempio − prendere la parola può condannare a morte. La seconda spinta gli viene dall'impertinente voglia di denunciare come "per quanto spesso in Europa ci si lamenti dell'inconsistenza politica della UE e del suo burocratico sopravvivere, [essa] a Beirut ha saputo scommettere sull'istituzione di questo premio grazie al quale hanno ottenuto risalto regionale e internazionale voci tanto arabe quanto coraggiose, forti e libere". Terza, o forse prima, motivazione, la voglia di parlare di quella Beirut che tanto lo affascina, "la Beirut che dalle finestre vede il Mediterraneo e la Beirut che vede soltanto un muro ancora crivellato da vecchi colpi di bazooka". E potremmo ipotizzare una quarta ragione: il fatto che la Storia stesse dandogli la possibilità di circostanziare la sua ferrea convinzione che "ciò che molti hanno chiamato l'89 arabo è esploso nel 2011 a Tunisi e al Cairo ma è cominciato nel 2005 a Beirut", quando un milione di libanesi − su quattro milioni di abitanti − è sceso in piazza dei Martiri "per dire kifaya, basta". Comunque sia, via via che scorrono le centoquaranta pagine dedicate alle inchieste, via via che si susseguono le inchieste (sui diritti negati dei lavoratori, sulla violazione dei diritti umani, sullo sfruttamento del corpo femminile, sull'infanzia abbandonata), via via che si dipanano i nomi dei giornalisti (egiziani, libanesi, palestinesi, iracheni, sudanesi e giordani) e via via che scorrono gli articoli dei siriani (forzatamente tutti anonimi), si spalanca lo scenario di un mondo corrotto e concusso, affamato e schiavizzato, oppressivo e opprimente. Un mondo in cui è fatica vivere, ma dove una giovane generazione, istruita ma non per questo abbiente, non cede e continua a denunciare i soprusi, a lavorare per vedere riconosciuti i propri e gli altrui diritti, a ritagliarsi spazi democratici in un sistema che vede la democrazia come il peggiore dei mali. Sono i ragazzi e le ragazze poco più che ventenni su cui, nell'estate del 2010, rifletteva Ahmad Baydoun, amato professore e sociologo di fama internazionale, la cui testimonianza è raccolta, assieme a quella di altri quattro intellettuali libanesi, nella terza parte del libro. "Mi sembra − diceva Baydoun − che i giovani, dei quali si parla troppo poco, siano stanchi di questa vita ma hanno paura". Evidentemente anche la paura arretra, sembra volerci dire Cristiano, quando il caos diventa la norma. Elisabetta Bartuli
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