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Caro Berlinguer. Note e appunti riservati (1969-1984) - Antonio Tatò - copertina
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Caro Berlinguer. Note e appunti riservati (1969-1984) - Antonio Tatò - copertina
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Descrizione


Questa è la pubblicazione integrale degli appunti preparati da Antonio Tatò per Enrico Berlinguer, negli anni in cui fu il più stretto uomo di fiducia del segretario comunista. Dal fondo archivistico dell'Istituto Gramsci, i documenti che concorrono alla lettura di alcuni fra i momenti più delicati della storia dell'Italia repubblicana. Dal 1969 all'84, anno della morte di Berlinguer, è possibile seguire le forme peculiari della politica italiana, la complessa composizione dei partiti e i loro intricati rapporti, l'allontanamento del Pci dall'Urss, la difficile ma costante interazione fra partiti di governo e opposizione di sinistra.
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Dettagli

2003
9 settembre 2003
XLII-336 p., Brossura
9788806165956

Voce della critica

Antonio o, più comunemente, Tonino Tatò non è certo uno dei protagonisti più noti al pubblico di quella tormentata stagione a cavallo fra anni settanta e ottanta che ha segnato indelebilmente la nostra storia repubblicana e che sta tornando con prepotenza al centro non solo della rivisitazione della memoria, ma anche della riflessione degli storici. Prima della pubblicazione di questo libro molti, anche fra gli addetti ai lavori, lo avrebbero anzi considerato al massimo un comprimario, ricordandolo magari solo per le sue silenziose apparizioni a Tribuna politica accanto a Berlinguer. Nato nel 1921, faceva parte di quel ristretto gruppo di cattolici comunisti - l'esponente più noto è Franco Rodano - la cui cultura politica ha lasciato nella sinistra italiana, e in particolare nel Pci, un'impronta ben più duratura e profonda di quanto poteva far immaginare la sua breve parabola di partito organizzato e la sua esigua consistenza numerica. Partigiano a Roma, poi giornalista e direttore del Centro di studi economici della Cgil, Tatò è stato per quindici anni capo dell'ufficio stampa di Enrico Berlinguer. Le sue note e i suoi appunti riservati indirizzati a quest'ultimo, edite per iniziativa della Fondazione Gramsci con una chiara e piana introduzione di Francesco Barbagallo, rivelano in realtà che si trattava di un personaggio di notevole statura intellettuale, legato a Berlinguer da un rapporto di fiducia strettissimo, la qual cosa faceva di lui - oltre che un amico - un consigliere discreto, ma autorevole e sicuramente molto spesso ascoltato.

I documenti pubblicati abbracciano un quindicennio, ma si concentrano soprattutto sugli anni 1976-1984. Anche se caratterizzati da lacune e discontinuità (di tutta la travagliata vicenda del sequestro Moro e della scelta compiuta dal Pci della "linea della fermezza" resta per esempio traccia in un unico e pur interessantissimo promemoria, mentre mancano del tutto note e appunti sul momento cruciale della lotta del 1980 alla Fiat), essi rappresentano una fonte di primaria importanza per scrivere la storia di quegli anni. Occorre dire che l'assenza di un pur breve apparato di note non facilita il lettore che si addentra nei meandri della complicatissima cronaca politica italiana di quegli anni: almeno una cronologia alla fine del volume avrebbe infatti potuto aiutarlo a orientarsi. Ci troviamo comunque di fronte, da un lato, a resoconti straordinariamente precisi di conversazioni con esponenti degli altri partiti, e soprattutto della Dc, ma anche con autorevoli dignitari ecclesiastici, che permettono di seguire in alcuni momenti quasi giorno per giorno l'evoluzione della politica nel "palazzo"; dall'altro, a veri e propri saggi di ampio respiro non destinati alla pubblicazione, dati in lettura al segretario del Pci, che vertono sia sulla politica italiana sia su quella internazionale. È molto probabile che un riscontro puntuale fra quest'ultimo tipo di carte e gli interventi pubblici di Berlinguer dimostri, anche più di quello che già appare, quanto credito riscuotevano presso quest'ultimo le considerazioni e le analisi di Tatò.

Gli spunti che offre il libro sono molteplici. Emerge in modo chiaro, come sottolinea Barbagallo, "un costante coinvolgimento del Pci nelle vicende politiche e istituzionali, tanto intenso e continuo quanto fermo e intangibile resterà il principio dell'estraneità del partito ai luoghi di governo del paese". Con altrettanta chiarezza è possibile seguire passo passo il travagliato percorso della Dc: un partito che appare per molti versi alle corde alla metà degli anni settanta, diviso al suo interno tra correnti litigiose, eppure unito nel contrastare quella che sembra a un certo punto un'inarrestabile deriva, aperto al dialogo con il grande avversario sul terreno della gestione della vita parlamentare e istituzionale, ma anche deciso a conservare intatto il suo controllo sul sistema politico della repubblica; apparentemente disponibile a trattare quasi su tutto, ma in realtà - anche più di quanto Tatò e Berlinguer sembrino rendersi conto - anguillesco e sfuggente al momento della resa dei conti. Tutto questo, occorre però dire, nel quadro complessivo di un rispetto autentico per l'interlocutore e di una mai completamente sconfessata condivisione di principi e di regole che è ancora il frutto dell'unico vero compromesso storico riuscito, quello costituente.

Nell'insieme, l'impressione che lascia la lettura di questi documenti, almeno per il periodo 1976-1980, è quasi di schizofrenia fra una politica di piccolo, a volte piccolissimo cabotaggio, da una parte, e dall'altra un'insopprimibile tendenza a pensare in grande. Esempi inarrivabili della prima sono le lapidarie comunicazioni di Franco Evangelisti, che era all'epoca l'omologo di Tatò per Andreotti: "I dorotei nella loro riunione si sono cacati sotto e hanno 'ammorgiato': ogni residua possibilità di gioco da parte di Piccoli è finita; (...) Bisaglia fa un sacco di giochi ma ce sta" (3 febbraio 1978). Esempio della seconda, fra i tanti, la lucida consapevolezza di Tatò della nuova situazione apertasi dopo le elezioni del 1976 ("Oggi siamo arrivati al muro: o si fa un'altra breccia o ci si ritira"), e insieme la sua denuncia del "rischio che vada indietro la democrazia (...) dentro quell'immondo contesto, ancora imperante, degli idola capitalistici: l'individualismo esasperato, l'edonismo, la rincorsa del guadagno facile, alto e immediato; la fuga dalle responsabilità (...); l'invidia del potere; l'assillo di pervenire a uno status sociale di successo e di prestigio prescindendo dai meriti e dagli sforzi, l'irrisione del risparmio e la mitizzazione del consumo" (13 ottobre 1976).

Colpisce, d'altra parte, la quasi totale assenza di riferimenti al quadro internazionale, se non per quel che riguarda il ruolo del Pci nel movimento comunista internazionale e il suo atteggiamento verso il "socialismo reale". Tatò sembra addossare la responsabilità della conventio ad excludendum in gran parte alle forze politiche italiane, menzionando assai di rado il persistente veto americano. Di notevole interesse - in questo quadro - è il suo giudizio durissimo su Craxi, "un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori e ai loro profondi e reali interessi; (...) uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno invadendo la sinistra italiana - l'irrazionalismo e l'opportunismo" (18 luglio 1978). Ovvio che, date queste premesse, quando Craxi nel marzo del 1981 trasmette a Berlinguer, tramite Eugenio Scalfari, la proposta che sia il Pci a proporre un governo con il presidente del consiglio socialista, sostenuto dall'esterno dai comunisti, Tatò consigli a Berlinguer di rispondere picche. In realtà le sue argomentazioni, pur cogliendo tutto lo strumentalismo della proposta di Craxi, non intaccano la sostanza del ragionamento di questi, che spietatamente mette in luce l'isolamento comunista. Non è infatti più il Pci, come crede il consigliere di Berlinguer, ad avere "il coltello dalla parte del manico": e quando Craxi scoprirà il suo presunto "bluff", avrà la presidenza del consiglio e la terrà saldamente per tre anni, con un Pci sempre più in difficoltà e in declino anche sul piano elettorale.

Le note riservate di Tatò aprono squarci molto interessanti e significativi anche sulla dinamica interna del Pci e sul confronto sotterraneo ma sempre più duro che si apre all'interno del suo gruppo dirigente fra i berlingueriani e la "destra" di matrice amendoliana. Le materie principali del contendere sono da un lato la politica economica (agli "epigoni dell'amendolismo" Tatò rimprovera una linea che "con qualche astrattezza programmatoria e con qualche contrappeso demagogico ci ha portati a una sostanziale sudditanza, a una afasia, a una piattezza che ormai può divenire mortale per il movimento operaio e per il partito" (25 marzo 1981); dall'altro la irriducibile "diversità" (ideale, morale, antropologica) che il segretario - fortemente sostenuto da Tatò - rivendica contro l'idea che il partito comunista italiano debba sostanzialmente omologarsi a una socialdemocrazia europea. Anche in questo caso, nelle riflessioni che Tatò sottopone a Berlinguer, si alternano spunti critici di sofferta lucidità e sorprendenti ("lo smarrimento dei compagni, lo scacco elettorale in Sicilia, la frana a Bari, dipendono in linea pratica dal fatto che noi in queste regioni , salvo alcune mosche bianche, o ci siamo mossi a corteggiare i socialisti o a inseguirli e a emularli sul loro terreno; e in chiave oppositoria, invece che in chiave di collaborazione, la stessa cosa abbiamo fatto con la Dc") e anacronistiche chiusure settarie ("oggi Berlinguer sta combattendo la stessa battaglia di Gramsci e Togliatti contro l'opportunismo di destra e di sinistra", luglio 1981).

L'ultimo punto sul quale varrebbe la pena di soffermarsi è il giudizio sul socialismo reale e sull'Urss. Qui certo Berlinguer, come rileva Barbagallo, non ha tenuto troppo conto, proclamando conclusa la famosa "spinta propulsiva", della prudenza del suo fidatissimo consigliere, che certo non lesinava critiche alla mancanza di democrazia nei paesi dell'Est, ma condiva il suo giudizio con molti distinguo e con un costante richiamo alla necessità di usare un metro di giudizio "storicistico" alle volte pericolosamente vicino al giustificazionismo.

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