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"Ambizioso, sensuale, amante delle grandi e belle cose, sensibile a tutto ciò che esalta e blandisce l'anima, si rivolse alle arti per moltiplicare attorno a sé la rappresentazione della gloria e del piacere". È questo il ritratto che Anatole France fa di Nicolas Foucquet, rinomato e controverso sovrintendente alla finanze francesi durante il regno di Luigi XIV e protagonista della vicenda del "castello di Vaux-le-Vicomte", da cui trae il titolo questo libro. Scoperto da Richelieu, dopo una amara esperienza nel distretto di Grenoble, deve attendere la morte del cardinale per essere notato da Mazzarino, che lo invia nella Brie. Procuratore al parlement di Parigi, qualche mese più tardi diventa sovrintendente alle finanze, potente come un re, ma assai più ricco. L'influenza di Foucquet tocca così il suo apice. E a identificarla (sancendone, se vogliamo anche un po' ingenuamente, la fine) è la progettazione del grandioso castello. Per la sua edificazione sono demoliti tre paesi e vi si dedicano poco meno di duemila manovali, attraendo strali e laceranti invidie a corte. A tutto questo non resta insensibile Luigi XIV, che dopo la morte dell'ultimo dei ministri-cardinali, accentra su di sé tutti i poteri. Il sovrintendente non si fa trovare abile e tempista: minimizza le volontà del monarca, tenta di circuirlo e si spoglia improvvidamente della carica di provveditore (insieme all'immunità che da essa ne deriva). Viene così sottoposto a un processo di dubbia garanzia, ma non si piega: si difende orgogliosamente, evita la pena di morte e finisce la sua vita nelle carceri di Pinerolo. Da qui prende le mosse l'appassionata difesa da parte di Anatole France.
Se è vero infatti che lo scrittore francese non esita nella descrizione del cattivo operato del funzionario, non c'è passo in cui non inviti il lettore a giustificarlo e a farsi carico delle attenuanti. "Amico delle arti e uomo generoso", egli ricorre spesso, è vero, a tangenti e fondi neri, ma mai a fini personali ed egoistici. Il suo mecenatismo diviene così celebre e i grandi della letteratura di Francia come Corneille, La Fontaine e Molière vi trovano riparo (e lauta sportula). France ci restituisce un intrigante trompe-l'oeil condito da qualche amore e da molte invidie viscerali. Ma fa inevitabilmente di più. In filigrana si trova il filo rosso che lega questo racconto a tutta l'opera del romanziere che avrà il Nobel nel 1924: la scrittura raffinata, lo scetticismo ironico e un epicureismo che a tratti trascolora in edonismo. La sua narrazione scorre e si dipana in una visione lucidamente conservatrice in difesa dello stato, lontana dall'accettazione delle idee socialiste di molti anni più tardi, "adeguandomi, come si deve, allo spirito delle istituzioni". Ed è in questo, oltre che nel godibile resoconto delle vicende in quel di Belle-Ile, che va rintracciato l'interesse principale del Castello di Vaux-le-Vicomte.
Filippo Maria Battaglia
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